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Mr Ciak #25: American Hustle, La vita di Adele, Un Boss in salotto, Diana
Creato il 03 gennaio 2014 da Mik_94Il primo film che mi sono concesso in questo 2014. Come inaugurare bene un anno al cinema, direi. Anche se American Hustle non è nelle mie corde. Anche se non mi fido mai del solito “tratto da una storia vera”. Anche se, con una durata che supera le due ore, è troppo lungo per i miei canoni. Niente da fare. Inutile negare l'evidenza. Il nuovo film del regista di Il lato positivo e The Fighter è una perfetta macchina d'intrattenimento. Staordinariamente diretto, straordinariamente interpretato, straordinariamente strutturato. Trasuda acume, intelligenza, intuito e un gusto vagamente kitsch e cripticamente elegante che fa letteralmente impazzire. Ha grandi nomi nel cast e un grande nome alla regia, ha fatto incetta di nomination ai Golden Globe, ha fatto furore sin dai primissimi trailer, ha fatto parlare tanto e benissimo di sé, ma non è uno di quei film che guardi passivamente e a testa bassa, sapendo di non poter criticare chi l'ha acclamato, con la tua voce spesso fuori dal coro, e sapendo, magari, che, se non lo troverai grande, è colpa tua, che non sei uno “da film d'autore” e mai lo sarai. Io, che Il lato positivo l'ho trovato sopravvalutato a dir poco e che The Fighter non l'ho ancora visto, l'ho trovato pazzesco: sfizioso, ritmato, sorprendente, folle. Magnificamente folle. I personaggi, cesellati con cura e incastonati in un intreccio senza errori, hanno caratteristiche proprie, identità solidissime, un talentuoso regista di cui si fidano ad occhi chiusi... ma sono allo sbaraglio. Camaleontici, commoventi, esilaranti, esaltanti, completamente in parte e completamente fuori di testa. Intorno a loro, colpi di scena e truffe e, soprattutto, gli anni '70. Soprattutto, New York. Le luci, i locali, le discoteche, le pellicce pacchiane e i glitter, la musica disco e le catenine nello scollo delle camicie, le auto truccate e gli hotel di lusso, gli scandali finanziari e i politici corrotti. Sfondo pulsante, iconico, eccessivo e bello per una cinquina di attori strepitosi e mutevoli, sempre. Attori trasformati in pupe sexy o in casi umani, in caricature e in spregevoli imbroglioni a seconda delle occasioni: perché le apparenze ingannano, e Christian Bale può diventare brutto, grasso e calvo; la adorabile Amy Adams di Come d'incanto una femme fatale tanto bella da far girare la testa; il sex symbol Bradley Cooper un brillante agente che meriterebbe urgentemente una promozione, un parrucchiere e una ceretta al petto; il sempre trascurato – da me e basta? - Jeremy Renner un attore degno delle sue due nomination agli Oscar; l'avventosa Jennifer “Katniss” Lawrence un'appariscente ventenne che sembra soffrire di bipolarismo e, precocemente, di una tragicomica sindrome di mezz'età. Pochi personaggi, ma le cui vite – tra disastri e comicità – sono intrecciate con tutta l'intelligenza di cui il cinema hollywoodiano è capace. Ricordano, con i loro pazzi eccessi e i loro tratti marcati e forti, i quattro e inferociti borghesi di Carnage. Come quei grandi attori diretti da Polanski, infatti, buttano le loro vecchie maschere, si spogliano della loro solita pelle e, imbizzarriti e spesso sguaiati, liberano un'anima nascosta, ma che immediatamente conquista. Personaggi cult in un film pieno di momenti dannatamete cult: la sequenza d'apertura con l'elaborato e disgustoso parrucchino di un Bale multiforme e poliedrico, il bacio tra i vestiti dimenticati della lavanderia, il cameo epico di Robert De Niro, Bradley Cooper con i bigodini nei capelli, il suo show in stile La febbre del sabato sera con una Adams dagli occhi e dalle scollature profondissime, il karaoke improvvisato – con tanto di piccola coreografia – di una Lawrence triste ma divertentissima, splendida anche con la tuta sformata e i guanti gialli sporchi di sapone per piatti. Difficile dire chi tra loro sia il più bravo. Jennifer, la più giovane del cast, sembra più giovane e più vecchia allo stesso tempo: i capelli sempre intatti, il fare volgare, gli stessi momenti di debolezza e di euforia della sua Tiffany in Il lato positivo. E' spettacolare, con la capacità di rendere grande un ruolo piccino, ma un altro trionfo agli Oscar, francamente, nonostante l'immensa stima che nutro per lei, mi sembrerebbe troppo: il suo personaggio, a volte, ricalca notevolemente le caratteristiche di quello che, lo scorso anno, le ha regalato l'ambitissima statuetta. Ma, lo sapete, l'Academy ama le squilibrate, e lei si dimostra decisamente convincente nei panni di questa disastrosa, frivola e oca Jessica Rabbit bionda, che ama lo smalto rosso e gli uomini difficili. Un'altra cosa che l'Academy ama, però, sono le trasformazioni radicali, e l'ex Cavaliere Oscuro è particolarmente maestoso. Ma Amy Adams, mai così bella, ipnotizza, e Bradley Cooper – che da un po' ha dimostrato di non essere il classico belloccio senza arte – è bravissimo. Sfortunato e oscuro come il suo personaggio, in Il lato positivo non ha ottenuto quel premio che avrebbe meritato: spero che American Hustle sia il suo film. Perché David O. Russel è il suo regista, sì. Una commedia compatta, funambolica, colorata, bugiarda, ebbra e lucidissima, in cui tutti imbrogliano tutti, ma in cui lo spettatore è trattato con i guanti bianchi: sul valore di questo film, infatti, sarebbe impossibile mentire. Non si bara. Consigliatissimo. La vita di Adele, per molti il film più bello in assoluto del 2013, è il tipico film da Festival. Ha vinto la Palma d'oro a Cannes, è tra i miglior film stranieri in lizza per il Golden Globe e, anche se non è arrivato agli Oscar, è arrivato molto, molto vicino all'ambito traguardo. Uno di quelli – con un regista amato e molto controverso, illustri rimandi, scelte coraggiose e coraggiosi movimenti di macchina – destinati a piacere, forse, più al grande critico di turno che allo spettatore medio. Io sono lo spettatore medio, immagino, e, decisamente no, non sono un tipo “da film da Festival”. E, ancora, non saprei dire se, trovandomi al cospetto della Vita di Adele, mi sono sentito di stare guardando il gioiello autentico di un anno di buon cinema, ma una cosa l'ho capita, sì: l'ultimo film di Kechiche – regista di cui non avevo mai visto altro prima e di cui non penso vedrò altro in tempi brevi – è un bel film. Indubbiamente. Troppo lungo, troppo esplicito, troppo semplice, troppo onesto. Pretenzioso nemmeno per un attimo. Fatto di momenti bellissimi e di altri apparentemente superflui, di giorni belli e di altri noiosamente normali, di svolte degne di essere raccontate e di altre a cui, invece, nessun altro avrebbe dato visibilità. Per quanto ami il titolo della graphic novel che ha ispirato il regista, “Le bleu est une couleur chaude”, quello scelto alla fine, in un secondo momento, è più calzante e perfetto. Dice il necessario; tutto. Si parla di una vita. Con i suoi alti e bassi, i suoi momenti felici e i suoi momenti tristi, i suoi pregi e i suoi difetti. Giovanile, immediata, carnale la prima parte; adulta, misurata e triste la seconda: il litigio tra le due formidabili protagoniste e uno dei loro ultimi incontri, in un ristorante quasi vuoto, rimangono i momenti più emozionanti e struggenti di tre ore di pellicola. Momenti da ricordare. E io li ricordo, come ho ricordato, in quegli attimi, a caldo, la struggente Someone like you, di una signora cantante che ha lo stesso nome della protagonista, e la sfuriata di una furibonda e sconvolgente Giovanna Mezzogiorno, in L'ultimo Bacio. Non vi parlo della storia, perché non c'è niente da raccontare: La vita di Adele è incentrato su una giovane donna, prima adolescente poi improvvisamente adulta, e sul suo primo e ultimo grande amore. Parla di due persone che si amano, e che queste persone siano due donne non conta. Non conta, come non ha contato per Kechiche, che non ha inserito le sue protagoniste in un melodramma che sa inevitabilmente di amore impossibile, ma del più semplice, vero e comune degli ingredienti: la normalità. Il regista appiccica la macchina da presa al corpo della protagonista e non la molla più, fino a quando la pellicola a disposizione finisce e i titoli di coda scendono dal nulla, sullo schermo nero. Una protagonista che inquadra mentre va al liceo, mangia, piange, fa sesso, bacia, spiega, insegna, chiede perdono, fugge disperata. Adèle Exarchopoulos – appena vent'anni e origini greche, sconosciuta da noi – è la musa di Kechiche, suo maestro e suo segreto carceriere. Ha cambiato il nome al personaggio del fumetto per darle quello di lei, ha inquadrato le sue mille smorfie e la sua bocca sporca, le ha dato un ruolo impossibile e le ha fatto vivere una vita non sua: quella di un'altra Adele; una che ama le donne e si sporca quando mangia, che legge molto e molto ha da capire. Una ragazza difficile – da amare, da comprendere, da interpretare -, al contrario di Emma: più decisa, più forte, più matura. Tra le due, ho preferito lei, che aveva il volto strano di Léa Seydoux e i capelli blu di un'artista ribelle: un curioso e affascinante mix tra Marion Cotillard (suoi sono gli occhi), Vanessa Paradis (suo è il sorriso imperfetto) e il David Bowie di Life on Mars (suoi sono i colori). Fanno scandalo le scene di sesso – lunghe, insistenti, ai limiti dell'esplicito – ma non mi hanno infastidito, personalmente. Il regista – con una certa morbosità, e lo riconosco – contempla quei corpi belli e intrecciati insieme, quelle lingue umide e quelli pelli bianche come il latte, ma il risultato – non saprei spiegarlo bene – sarebbe stato diverso se, protagonisti delle criticate scene, fossero stati un uomo e una donna, o due uomini. Tutto sarebbe stato più terreno, crudo. Adele e Emma, insieme, in quei momenti così forti, sono la bellezza al quadrato, l'arte, l'etereo. Perché la donna, l'essere più bello e complesso del creato – e della coppia -, si duplica, in un gioco fortemente erotico di prospettive, riflessi, nodi di carne. L'esperimento, d'altra parte, non so quanto avrebbe funzionato se, a essere ripresa, fosse stata la vita di una coppia non composta da sole donne: perché Emma e Adele, e il loro grande e difficile amore che si rivela esattamente uguali a tutti gli altri, sono l'unica risposta. L'approccio di Kechiche, fortemente criticato dalle attrici stesse, è azzardato e a senso unico, fortissimo: ho sentito, spesso, come anche loro hanno rivelato, le giovani protagoniste in trappola, schiacciate dalla macchina da presa e dalle pretese di un autore che voleva più baci, più sesso, più verità: anche troppo. Lavorare con lui è stato un inferno, forse, ma sono certo che la Seydoux e la Exarchopoulos non appariranno mai più così: giovani, belle, brave. Per il resto, La vita di Adele è, paradossalmente, un film molto delicato: che cammina lento, e in punta di piedi. Scalzo.
In Benvenuti al sud e Benvenuti al nord, due straordinari successi al botteghino, Luca Miniero aveva parlato di noi, della nostra Italia, delle tante contraddizioni e delle differenze non sempre inconciliabili tra settentrionali e meridionali, con ironia, leggerezza, serenità. Nuovamente al cinema con Un boss in salotto, ritorna con una storia nuova, ma non troppo. Non ci sono più Bisio e Siani, non ci sono più O' sole mio e Oh mia bela Madunina, ma i temi – grosso modo – rimangono gli stessi, anche se con un cast rinnovato e con una diversa etichetta. Miniero porta un camorrista tra le montagne, in Trentino. Mette il sud agli arresti domiciliari, su al nord, e dà a Paola Cortellesi un ruolo da “terrona” convertita, con tanto di accento sudtirolese, figli educatissimi e iscritti a una scuola privata e un maritino remissivo e a modo, che ha il volto di un Luca Argentero sempre presente, sugli schermi nostrani, e sempre in parte. La Cortellesi, da Carmela, ha cambiato il suo nome in Cristina: ha perso la cadenza napoletana, ha imparato a cucinare i piatti tipici e ad odiare la pastiera e, soprattutto, si è lasciata alle spalle un fratello con la propensione a mettersi nei pasticci e con la fedina penale sporca. Un fratello che ha dato per morto, tanto tempo prima. Finché non bussa alla sua porta ancora. In attesa del processo, il presunto boss Rocco Papaleo, infatti, starà da lei: in una famiglia noiosamente normale e fintamente perfetta che non lo vuole e non è disposta minimante ad accoglierlo. Disastri, gag e buffi equivoci saranno all'ordine del giorno. Un boss in salotto, arrivato in sala il primo dell'anno, è un film semplice, edulcorato, ordinario, ma appare oro, se confrontato ai soliti e scadenti cinepanettoni che il Natale ci ha portato, quest'anno come gli scorsi. Rimescola i soliti luoghi comuni su nord e sud, pizzica e prende in giro una parte e l'altra dello stivale, mostra settentrionali che fanno yoga e mangiano roba improponibile e meridionali che non perdono mai la cadenza e che sporcano la cucina con il sugo rigorosamente fatto in casa, ma fa star bene e, per quell'ora e mezza, diverte. Si sorride per il solito buonismo dell'epilogo, si fanno le solite riflessioni sulla crisi e sull'importanza delle relazioni, ma si ride anche, e parecchio. Merito di un ottimo trio d'attori e di due comprimari particolarmente simpatici/antipatici. Paola Cortellesi, bravissima come sempre, potrebbe reggere il film da sola, ma Luca Argentero è bravo e l'esilarante Rocco Papaleo lo è ancora di più. Molto di più. Solo ma non spaesato l'Ale del duo Ale & Franz, immancabile e immancabilmente convincente l'ormai onnipresente Angela Finocchiaro. Tra Ti presento i miei e Quell'idiota di mio fratello, si ripercorrono cliché collaudati e collaudate strutture, dunque, ma di cui lo spettatore medio non è ancora stufo del tutto. Nel frattempo, si ride di gusto. E quello è l'importante, per cominciare l'anno. E' sempre un'impresa delicata realizzare un biopic. Soprattutto se, a venire raccontato, è un personaggio che ha fatto storia. Emblematico, affascinante, iconico. Su Diana – La storia segreta di Lady D si è abbattuta una sorte simile, sin dall'inizio. E come da copione, aggiungerei. Impossibile toccare la compianta e amata Principessa del Galles, un mistero in vita e un mistero ancora più grande dopo la sua tragica morte. C'è chi ci ha provato, ma si è guadagnato una pioggia di critiche e stroncature più torrenziale ancora di una di quelle che, in questo inverno freddo, si saranno abbattute sulla grigia Londra. Francamente, non ho trovato Diana la catastrofe annunciata che avevano descritto. Ha una fotografia curatissima, una regia solida, costumi perfetti, uno stampo perfettamente cinematografico – alla regia, si nota la mano esperta del tedesco Oliver Hirschbiegel, regista di La caduta. Soprattutto, sarebbe degno di essere visto anche solo per Naomi Watts, che nei panni della principessa triste mostra un'espressività e un rigore ai limiti del maniacale. Il trucco e gli abiti di scena famosissimi ricordano la vera Diana, ma la somiglianza fisica non è poi tanta: Naomi Watts ha tratti più dolci, morbidi e aggraziati della nota principessa, che – sebbene simbolo di femminilità universalmente riconosciuto – aveva una bellezza più britannica, con tratti più spigolosi e un viso più arcigno. Recita con la sua solita naturalezza, portando sullo schermo eleganza e raffinatezza senza fine: quasi non si vede lo studio meticoloso che dev'esserci stato dietro a questa sua superba prova. Una prova buona, ma non di certo la migliore della sua carriera. Anche se, senza dubbio, potrebbe essere considerata la più ambiziosa. Lei è bravissima, ma non può un'attrice – per quanto brava – fare di un film un bel film. A questo biopic credo che manchi la verità. Si lascia seguire, coinvolge, emoziona a tratti, ma non ha un'identità precisa. E' autentico quanto può esserlo un romanzo. Ho apprezzato l'idea di voler mostrare Diana come una donna come tante, alle prese con nuovi amori e vecchi dolori. Ma la normalità ricreata, è evidente, sfocia nella finzione più pura. Eppure, non lo nego, fa anche sorridere piano vedere l'imbarazzo e l'ansia della donna più famosa della terra alle prese con il primo appuntamento con il dottor Hasnat Khan, non proprio il principe azzurro delle favole: fuma troppo, mangia troppo e male, odia i paparazzi e la vita pubblica. Ma nemmeno Diana, se per questo, lo è. Lei non è mai stata la principessa delle favole: tradita, divorziata, allontanata dai suoi due figli, criticata e condannata a non avere un finale felice. Riprendendo una celebre intervista rilasciata, nei primi anni '90, alla BBC, il film – all'inizio – mette a nudo le fragilità sconosciute e la debolezza della donna, non della futura erede al trono: una donna che, nell'omertà generale, faceva del male a sé stessa, facendosi tagli profondi lì dove nessuno poteva vedere. Incisiva l'immagine dei suoi occhi azzurri allo specchio, forte il soffermarsi sulle sue calze smagliate – dopo una fuga dall'appartamento di Hasnat -, triste il suo pianto liberatorio sui tasti del pianoforte. Convincente la Watts, discreto Naveen Andrews, che – invece – alle spalle ha la partecipazione a serie televisive come Lost e Once upon in Wonderland. La storia inedita di questo suo ultimo amore, la vita di questo chirurgo che sperava potesse aggiustare anche il suo, di cuore, è interessante. Ma la normalità in cui è inquadrato il loro rapporto sa, alla fine, di posticcio. E'scandita da bei momenti, ma che rimangono i tipici momenti da film. Ho avuto l'impressione che una vita importante dovesse essere affrontata in maniera diversa: più importante. L'esatta ricostruzione storica, dunque, lascia il tempo che trova e questo è il peggior difetto della pellicola. La loro storia d'amore si apre a sprazzi di cronaca, ad articoli d'attualità, ma che, alla fine, non fanno di Diana né un biopic, né un sostenuto dramma. Un film d'amore a singhiozzi, altalenante. Ha la pacatezza e il controllo inglesi, ma non ne ha il carattere forte e il coraggio. Mostra un'unica verità, quella della protagonista, ma nemmeno lei sa farsi perdonare i buchi nella sceneggiatura che, purtroppo, caratterizzano soprattutto il noto epilogo. Si poteva fare diversamente, si poteva fare meglio. Perché la Watts, per quanto talentuosa, non può far tutto.
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