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Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornate

Creato il 29 aprile 2015 da Mik_94
Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornate Quando ho smesso di piangere sono andato in cerca delle parole. E' successo più o meno così. Poi mi sono chiesto come avrei voluto parlarvene e quale scusa avrei trovato per inserire uno dei film più belli dello scorso anno – purtroppo, recuperato solo ora – nella Top Ten del cinema che è venuto nei quattro mesi scorsi e che verrà nei nove successivi. Imbroglierò; regole mie, blog mio. Mommy finirà in cima al podio e sull'header, sicuro come solo la morte. E le parole si sono nascoste, non si sono fatte trovare, perché alla fine più ci tornavo sopra, più mi rendevo conto che i fazzoletti non sarebbero bastati. A un certo punto, mi ero trovato con le guance umide senza preavviso. Succedeva e basta; avevo dato il mio via libera, e giù di goccioloni furiosi. Quando in casa sono solo e il film è bellissimo rendo di più. Ci sono i film che vanno pianti, altrimenti li capisci a metà. Mai pensato che Xavier Dolan – venticinque anni, cinque film presentati a Cannes; un artista della forma, ma dell'emozione? -, mi avrebbe regalato una delle visione più indimenticabili e il primo pianto dell'anno. Maledetto. Ma anche grazie. Scoperto la scorsa estate, aveva tutto ciò che odio - presunzione, sicurezza, autorialità – ma un occhio ipnotico: se lo sguardo ne era uscito appagato, il cuore non aveva trovato pane per i suoi denti. Con lui misuro un cinema che dev'essere sensazione: la sola forma è come un corpo che invecchia. Resta altro; e quelle poche benedette volte che resta lo senti nello stomaco. Come le farfalle che svolazzano o il dopo sbronza che risale. Mommy è un clamoroso esempio di cinema d'autore fatto per il mondo. Concezione impossibile, come gli unicorni e Babbo Natale; paradosso. Ma Dolan nella sua nicchia sonnolenta non ci sta. Si sentiva imbarazzato quando la critica lo paragonava ad autori che lui neanche conosce: non molto tempo fa, infatti, è stato un ragazzino che è cresciuto considerando genii Cameron, Spielberg e Columbus; un fruitore orgoglioso di pellicole mainstream; uno col mito dei film per famiglie vecchio stile – quando nella sua, di famiglia, c'era invece qualche problema. All'età in cui c'è chi si laurea e chi scappa all'estero, lui firma il suo capolavoro. Mommy è il film per famiglie secondo lui. Suo, suo per forza, ma diverso, finalmente: parla meno di sé; si emoziona di meno, c'è più controllo; ma emoziona di più te, con devastazione e dolcezza e generosità. Il cantante, nei concerti, stona un po' quando deve cantarti le sue storie d'amore e il suo privato. Allora il regista si mette da parte, toglie il suo nome dal cast e ci parla, mantenendosi dietro la macchina da presa, della prima parola che ogni bambino pronuncia: mamma. Ma la mamma sciagurata della magnifica Anna Dorval non festeggia il dieci maggio e ha un figlio pazzo che pensa di curare con il suo amore. Sono una famiglia sgangherata, in cui altri uomini non sono ammessi, ma - nonostante le botte e gli insulti - si vogliono bene con trasporto. Sono l'unica cosa che hanno. Guai a separarli. Lo spettatore entra in casa Dorval insieme alla vicina di Suzanne Clément, un'estranea che solo in mezzo a loro, altri estranei, riesce a parlare senza balbettare. Mommy è universale, ruvido e purissimo. Esagerato e strabordante. La scena madre, di solito, è quella che si ricorda. Quella in cui trionfa spontanea la commozione. Ma Mommy ha vari finali, troppe scene cult e la fattezza di una continua e lunga scena madre. Poetica della libertà, inventata da uno che ha la coscienza di un vecchio e l'iperattività di un bambino che a scuola purtroppo non fa faville: proprio non vuole capire che deve scrivere nel rigo giusto, che non deve uscire dai margini. Cerca di contenersi, perciò, chiudendo i personaggi in un significativo 4:3: due bande nere ai lati dello schermo, l'immagine come tra parentesi, Diane e Steve – di rado nella stessa inquadratura – imprigionati dalla pazzia di lui. Il prodigioso Antoine Olivier Pilon – sedici anni, la zazzera bionda, il grugno alla Macklemore – sul suo pianeta irraggiungibile. Che tenta il suicidio e chiede perdono alla mamma, come se avesse fatto rompere per sbaglio un bicchiere. Che piange, si dispera, cerca il suo aiuto, come ho fatto io il primo giorno all'asilo; quando la maestra Luciana le ha chiesto di andare via – e io piangevo e mamma piangeva – e alla fine è tornata a prendermi, ma tanto stavo già meglio. Che al karaoke, stonato, le dedica Vivo per lei – Bocelli e Giorgia in una surreale colonna sonora che comprende Dido, Lana Del Rey, Céline Dion, gli Oasis e Ludovico Einaudi. Ci sono giorni cattivi e giorni buoni, in cui la felicità, a portata di mano, è un'utopia in 16:9: lo schermo si amplia, le sbarre del carcere si fondono e Steve, a bordo di uno skateboard, scorazza nella vita vera. Finalmente organico, finalmente benvenuto al mondo. I figli – e film come Mommy – so' pezzi 'e core. (9)
Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornateCi sono i film brutti, quelli belli e le occasioni mancate come questa: il terreno era fertile, ma nessuno ha voluto seminarlo. I frutti perciò sono pochi e acerbi. Se fosse stato un romanzo, Adaline sarebbe stato un Neri Pozza: lungo, minuzioso, elegante. La storia di una donna che ha smesso di invecchiare e che è stata testimone di anni e anni di storia: un cenno alle due guerre; una vaga sottotrama spionistica, magari; l'America oggi, ieri e domani, dal punto di vista di una che c'era col crollo di Wall Street, l'uomo sulla luna, le Torri Gemelle. Poi, oltre la storia, anche l'amore: immancabile per ogni vita appassionata, figuriamoci due. Hollywood non ci ha pensato. Un altro Benjamin Button sarebbe stato troppo, quindi ecco la splendida Adaline: ventinovenne da un secolo, innamorata dell'amore, colta, ma priva di esperienza. I flashback dei roaring years e dell'epoca beat, il Charleston e i capelloni, ma il resto? Manca il senso di profondità storica, la saggezza di cui la protagonista immortale non ha fatto dono ai suoi sceneggiatori. C'è un mondo d'amore – e non in senso negativo, perché i sospiri si contano e i sorrisi no – ma lo sfondo è evanescente. Adaline è infiocchettato ad arte, impeccabile, ma perfettino. La macchina da presa danzante, i fiocchi di neve, i costumi messi in risalto dalle forme della splendida protagonista e un epilogo fiabesco che, una mezz'ora prima della chiusa, già si intuisce – e io l'ho suggerito alla sala piena, ovviamente. La voce di un funzionale narratore, però, te lo racconta come fosse una fiaba e la suggestione c'è, anche se non sono riuscito ad oltrepassare mai l'uscio del palazzo. Buona la prova di Blake Lively – altissima, biondissima e purissima – ; e poi, guardatela, cammina sulle nuvole. Con lei Michiel Huisman, altro volto del piccolo schermo che, alla sua bellezza rude, unisce inaspettato brio; infine, un Harrison Ford il cui ruolo, teoricamente inaspettato, è svelato con idiozia nel trailer. Titolo vago e un po' ingannevole The Age of Adaline. Meglio dare spazio ai suoi “lovers” sin dalle premesse, così da chiarire che si tratta di una commedia romantica originale e non di una ricostruzione storica banale: è diverso, se ci si fa caso. (6)
Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornateQuella di Joe è la storia di tanti ragazzi della sua generazione; gente cresciuta ai tempi della musica dance, delle restrizioni della Lady di ferro, dell'Aids. Pride è l'orgoglio di Joe, pronto a spiccare il volo lontano dal nido, e quello della comunità omosessuale tutta che, all'alba di una rivoluzione di costume, scende in piazza e si fa sentire. Pride è l'orgoglio dei minatori britannici che, al centro di una crisi che forse ci è familiare, perdono il posto. Ma c'è anche un altro orgoglio, negativo, che è da prendere e mettere da parte: come conciliare operai di paese e gay di città? In Pride, tratto da una storia vera, la causa di uno diventa la causa di tutti. I minatori non hanno mai visto un omosessuale – almeno non dichiarato – e gli omosessuali non hanno mai visto un minatore – almeno non uno spogliarellista vestito da minatore. Così, operai tutti d'un pezzo balleranno, al centro della pista; arzille nonnine faranno le domande più indiscrete sulle pratiche erotiche di una coppia lesbo; gay londinesi riceveranno lezioni di mascolinità da uomini che sostituiranno padri conservatori che hanno tolto loro il saluto, mentre a loro volta essi tireranno fuori lati femminili nascosti e confessioni che hanno il potere di liberare. Passato in sordina in Italia, ma apprezzatissimo all'esterno, Pride è intelligente e ben confezionato, con punti di vista inediti e attori totalmente in parte – accanto ai mattatori della vecchia scuola, spicca il Dominic West di The Affair, passato brillantemente dal ruolo di sciupafemmine a quello di ballerino (e come balla!). Una miriade di tematiche affrontate con umorismo e delicatezza, uno script che abbraccia situazioni eterogenee e personaggi numerosi, un sentore di bontà che perdura. Le tregue, le strette di mano che siglano lunghe amicizie, i volti qualsiasi e le storie comuni che mostrano che un passo alla volta e perfino l'immutabile cambia. L'individualismo è un falso. Due ore piene, il pensiero speranzoso che forse è giusto – in questo nostro mondo bello perché vario - avere fiducia nel genere umano. (7,5)
Mr. Ciak: Mommy, Adaline - L'eterna giovinezza, Pride, Le streghe son tornateSotto la guida di un Gesù Cristo argentato, un soldato logorroico, Spongebob, l'uomo invisibile e un bambino criminale rapinano una gioielleria e scappano con la ricca refurtiva. Sembra una barzelletta surreale, ma le geniali sequenze d'apertura hanno il marchio di fabbrica di Alex de la Iglesia: regista spagnolo famosissimo, autore di pellicole che sono già cult – La Comunidad, suo, è uno dei film che riguardo più volentieri in assoluto -, figlio illegittimo di Almodòvar e Rodriguez, compagno di culla di Quentin Tarantino. O cose così. Dalla Spagna con squallore. A una prima parte da manuale, però, se ne alterna una seconda che sfocia in un finale lungo, sensazionalistico e non troppo in linea con il resto. Il difetto vero, purtroppo, è in agguato alla fine. Per una volta, il titolo italiano non sbaglia. Le streghe son tornare – che si rifà a uno slogan femminista – è un'arguta satira sui sessi dal linguaggio originalissimo, sebbene non completamente riuscita, e le protagoniste, fattucchiere perchè totalmente libere, mettono lo spettatore uomo in castigo in un angolo. La sanno lunga, la canzone; sanno quel che dicono. Per i protagonisti maschili, a questo punto, o la fuga o cambiare sponda. Dopo anni di assenza, ritorna con stile e ai Goya fa furore, subito pronto al'esportazione. Perché la storia rocambolesca di tre rapinatori nella casa delle streghe ha tanto del suo mondo ma a chi, profano, imparerà a conoscerlo da qui, con una commedia nera che gioca abilmente con l'horror, ricorderà un certo Edgar Wright, e non è poca cosa. Dalle parti di Hot Fuzz e La morte ti fa bella, in un calderone di effetti speciali, violenza e battutacce, si aggirano uomini in lotta per l'affidamento, ex diseredati, figli che devono rispondere alla domanda ossessiva vuoi più bene a mamma o a papà?; contro di loro, le partecipanti a un sabba demoniaco, in una casa abitata da donne. Che la lotta tra maschi e femmile, e tra bene e male, abbia inizio. (6,5)

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