La carestia che sta colpendo il Corno d’Africa non è un’emergenza del momento. Sono mesi, per non dire anni, che alcune regioni del continente nero non vedono piovere a sufficienza, con le ovvie ricadute negative sull’agricoltura e sull’allevamento locali. La popolazione è alla fame e ondate di profughi si spostano in cerca di cibo e acqua. Recentemente anche il Papa ha ricordato al mondo questo dramma sociale, vista la portata.
Al di là della solidarietà diffusa e dell’intervento concreto di pochi, c’è uno scenario pericoloso che si sta aprendo dietro alla carestia.
L’Ong Survival, in Etiopia, segnala che l’ultima foresta pluviale che resiste alla siccità è finita sotto l’occhio delle società malesi, coreane e italiane, che intenderebbero coltivare biocarburanti. Questo è solo un esempio dell’essere bipolare del capitalismo. Da un lato si creano macchine di aiuti internazionali. Dall’altro, si approfitta del disastro per acquistare a prezzi stracciati terreni che non sono destinati alla produzione alimentare.
Considerando l’estensione dei paesi colpiti, tra cui Somalia, Etiopia, Gibuti, Nordest del Kenya, praticamente, il rischio è che si ipotechino territori sterminati da 50 a 99 anni, senza alcun criterio. Certo, rimane sempre la promessa di un rilancio dell’economia agricola e della modernizzazione dei sistemi di irrigazione. Ma è una promessa ed è successiva al sacco.
Come se non bastasse, alle società che decidono di “investire” (il termine giusto sarebbe depredare con la complicità dei politici locali) si concede la possibilità di importare macchinari senza tasse doganali e l’esenzione fiscale per i primi anni di attività. Praticamente si tratta di una politica d’attrazione di investimenti che, nel lungo termine, produrrà più danni economici e sociali di quanti ne ha prodotti la carestia stessa.
Il problema sociale è ancor più aggravato dal fatto che gli indigeni vivono di agricoltura e che, anche quei pochi fortunati, dovranno lasciare le loro terre ed essere sgomberati. Il governo vorrebbe trasformarli da agricoltori a manovali da impiegare nelle coltivazioni estensive. Sorvoliamo sul problema dei diritti dei lavoratori e della loro tutela, lasciando da parte questioni etiche, che si sposano male con la logica del capitalismo e con i comportamenti delle multinazionali. Ciò che preoccupa è l’assenza di visione strategica di lungo periodo dei governi africani e di quelli occidentali.
Se si pensa che i problemi mondiali di soddisfazione del fabbisogno energetico possano essere risolti con la produzione di biocarburanti, c’è realmente qualcosa che non va, nonostante i biocarburanti siano meno inquinanti del petrolio.
In primo luogo, perché occupano terreni agricoli e il rischio che si determinino fenomeni crescenti inflazionistici nel mercato alimentare non sono frutto di fantasia. La stessa Banca Mondiale, in un suo rapporto, ha stimato che la crescita del comparto biocarburanti ha contribuito per il 75% all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari.
In secondo luogo, perché il rischio di condizionare il mercato dell’energia alle fluttuazioni delle produzioni agricole significa fare i conti con oscillazioni stagionali periodiche che si ripercuotono sul prezzo del carburante. Un pò come avviene per il vino. Quando la raccolta d’uva è abbondante il prezzo diminuisce, altrimenti sale. Ne trarrebbe giovamento solo la speculazione.
In terzo luogo, perché non permette il superamento di un attuale limite del mercato dell’energia, quello del forte potere di condizionamento da parte di chi detiene il controllo delle materie prime. Se nell’epoca dell’oro nero l’umanità è stata condizionata dalla volontà delle sette sorelle e delle lobby del petrolio, un domani saremo condizionati dalle multinazionali del settore agricolo che influenzeranno sia il mercato dell’energia, sia quello alimentare. Non è un caso che la maggior parte delle aziende petrolifere abbiano investito nel settore alimentare e in quello agricolo. Il che è un modo indiretto, ma non troppo, per dire che l’umanità ricadrà dalla padella nella padella.
Un’ultima annotazione. Per mantenere stabile l’attuale mercato petrolifero, nella maggior parte dei Paesi con giacimenti si sono avvicendati regimi dittatoriali. Criticati, ma sostenuti fin quando funzionali. Dovremmo ipotizzare che la geografia delle dittature mondiale subirà una variazione progressiva seguendo la via della produzione dei biocarburanti? L’ipotesi non è pura fantasia.