ulteriori squallidi mezzucci per alzare le visite
Non ricordo se il pensiero sia già stato formulato su queste pagine, ma il 2014 è veramente un anno del cavolo per il metal. Siamo già nel terzo quadrimestre e ho sì e no cinque dischi buoni da portarmi nel 2015. Quando le cose vanno così male tendi a rivalutare robe a cui non avresti concesso manco dieci minuti del tuo tempo. È quello che è successo, per esempio, coi Nachtmystium.
Che uno già tende a considerare il black metal americano come un qualcosa che non merita granché rispetto e, così in generale, di cui non bisogna manco parlare, figurarsi quando si tratta della cover band di Burzum (che a giugno ha pubblicato The Ways of Yore e qui abbiamo tutti fatto finta che non sia mai successo) dall’Illinois, che è tipo la cosa che meglio esprime il concetto di ‘derivativo’ che mi viene a mente adesso. Epperò ‘sto dischetto, cari fratelli della nera fiamma di Udûn, non è affatto male. Il precedente Silencing Machine era il solito guazzabuglio medioevale (cit.) di suoni indistinti da cui però spuntavano inspiegabilmente degli accenni ad un post-metal lamentoso, ma tutto sommato ben congegnato, che ti faceva rialzare la palpebra quando questa si afflosciava puntualmente dopo un paio di minuti di cicli lavatrice/risciacquo. Cioè, la sensazione non è quella di infilarsi un cotton fioc nell’orecchio e girare-girare che ti può dare il classico gruppo depresso della provincia di Minsk che carica cinque demo all’anno su un blogspot di un tizio che vive in Tanzania. Quindi, bene che abbiano sviluppato questo filone in The World We Left Behind, con ben poca originalità, sì, ma una solida convinzione. La cosa strana è che avrei iniziato il pezzo parlandovi delle fregature che quel simpatico burlone di Blake Judd sta rifilando ai fan su internet (si intasca i soldi dei cd e non evade gli ordini) e di come la Century Media si stia dando da fare per apparare l’enorme figura di merda. E invece si è riusciti a fare pure un discorso vagamente musicale.
Provando ad essere seri per cinque minuti (quando si parla di Islanda o di gruppi che vengono dall’Islanda la serietà è d’obbligo), affrontiamo il discorso sui Sólstafir. La loro parabola è presto descritta: iniziano nel filone del più classico viking metal (in modo non proprio convincente), poi passano a un più trendy post-metal, post-rock, sludge, progressive, cazzi vari (roba tipo Pelican, Baroness, Kvelertak per capirci) tanto da guadagnarsi un ingresso al Roadburn, producendo anche un paio di dischi carini (consiglio Masterpiece of Bitterness) e infine, con Svartir Sandar, provano a confondere le acque immobili dei fiordi dietro casa accennando una inattesa, quanto azzeccatissima, atmosfera di sogno e riflessione e superando una certa faciloneria che non si addice affatto ad un gruppo islandese. Adesso, in quest’ultimo disco, Ótta, i Sólstafir sembrano abbiano trovato la quadra. Sarà pure una frase fatta ma non mi va giù che uno che vive a ridosso di un vulcano, dove in inverno la temperatura va di molto sotto lo zero, dove tira un vento che ti porta via casa, dove la terra è scossa da terremoti ed eruzioni, dove il vicino più vicino abita a dieci chilometri di distanza e se hai scordato di comprare il latte devi aspettare che faccia primavera, si metta a suonare sludge/stoner e altra musica per scopare. L’approccio di Ótta è l’intimismo anima e cuore tipo Vàli o Tenhi, quindi quello più giusto per i Sólstafir. Non a caso quest’ultimo è il loro miglior disco fino ad ora. Ed ora, a conferma del trend poverello e miserevole che sta passando il metal targato 2014 AD, veniamo a versare le ultime lacrime amare rimaste per la débâcle degli Empyrium. Eh già, Ulf e Thomas si sono rincoglioniti. Doveva succedere anche a loro, infatti è successo. Tutte le cose belle finiscono prima o poi e gli Empyrium erano già finiti (di fatto) ma adesso ritornano solo per dimostrare che le cose possono anche andare peggio, volendo; per esempio, perché non diventare una cosa tipo Ulver? Sono due mesi che ascolto questo disco, praticamente almeno una volta al giorno, e ogni volta cerco di essere lucido e analitico, mi sforzo quanto posso di argomentare in modo comprensibile cosa non riesce ad andarmi giù di The Turn of the Tides; e poi niente, cestino sempre tutto con un bel vaffanculo Ulf/ vaffanculo Thomas/ addio mondo crudele. Che i progetti paralleli dei due abbiano influito negativamente sul ricomposto capitolo Empyrium è un dato di fatto; dicasi pure, la componente neoclassica alla base del pressoché vano b-side Noekk (Dead Can Dance e roba del genere – che a me piace pure tanto ma quando a farla sono Brendan e Lisa) e certa teatralità fuori luogo dei The Vision Bleak carica di quell’artificiale spocchia di gotico mistero (un gruppo che non ho mai tollerato né capisco come si possa apprezzare), ficcate a forza dentro un barattolo e ricoperte di caramelle mou sciolte e vaselina. Se già Weiland e la doommeggiante waldpoesie sembrano distanti anni luce da mille punti di vista (stilistico, compositivo, lirico, dei riferimenti letterari, tanto per dirne un paio), Songs of Moors and Misty Fields vi sembrerà il disco di un altro gruppo. The Turn non c’entra nulla col metal ma non nello stesso meraviglioso modo in cui non c’entrava nulla Where at Night the Wood Grouse Plays: è come passare dalla perfetta colonna sonora dei tuoi sogni più bucolici a quella perfetta per la sala d’aspetto del dentista. Nel merito stiamo parlando di sette pezzi: uno, The Days Before the Fall, risale al 2010 e già pubblicato in una raccolta (indubbiamente uno dei brani più carini, ma è roba vecchia); un altro, Dead Winter Ways, già pubblicato nel primo live in assoluto della band, Into the Pantheon (roba già sentita pure questa); uno, We Are Alone, completamente diafano ma che starebbe bene nell’ultimo cd di Rodrigo Leão; due clonazioni prese da un album dei DCD a caso (In the Gutter of This Spring e With the Current into Grey); infine, la prima Saviour e l’ultima The Turn of the Tides, due pezzi che sembrano effettivamente suonati dagli Empyrium per come li conoscevamo. Riassumendo, ci fate aspettare 12 anni (DODICI ANNI) per fare un disco nuovo e ve ne uscite con una intro e una outro?!? (Charles)