Ebbene sì, siamo arrivati a festeggiare il primo lustro della nostra rubrica dedicata al legame fra musica e letteratura, alla ricerca della melodia più adatta per esplorare, apprezzare e perché no, mettere in discussione il lavoro che lo scrittore ha faticosamente costruito per noi lettori. Chi ha messo a dura prova la propria capacità di attenzione, permettendo al dottor Živago di incontrare i vibrati di Annie Lennox, ai versi di Elisabeth Bishop di andare a nascondersi fra le nuvole bicolori di Ludovico Einaudi e ai personaggi alla rovescia di Pinter di litigare con il contrappunto sulle suites per violoncello di Bach, è pronto a fare un piccolo ulteriore salto verso una spinosa domanda:
«Oh, perché alcune persone sono più virtuose di altre? È una cosa che sanno fare fin dalla nascita? Loro non avvertono mai quell’impulso irrefrenabile di fare a pezzetti il mondo?»
A parlare è un certo Barnaby Gaitlin e noi siamo appena stati iniettati alla fine del primo capitolo di Le storie degli altri (prima edizione italiana Guanda 1999 – ultima in economica TEADUE 2011), romanzo di Anne Tyler narrato in prima persona da un Barnaby particolarmente dubitante, arrabbiato e meravigliosamente critico verso l’assoluta certezza che sembra stazionare placidamente in tutti quelli che lo circondano: sapere esattamente cosa fare della propria vita, non perché migliori ma solo perché programmati in quel modo, a cominciare dalla sua famiglia, ricca, a capo di una filantropica fondazione che porta appunto il nome di Gaitlin, ammirata e rispettata, insomma perfetta. Ecco, è adesso che dovete staccarvi dalla pagina (24 nell’edizione TEADUE del 2011) e dalla domanda che su di essa campeggia, un attimo prima di leggere la risposta che Barnaby sembra già fornirci (non credetegli!), chiudendo così capitolo, libro e dubbi annessi. È il momento di una contaminazione musicale di cui so diffiderete e a causa della quale l’autrice mi lancerebbe volentieri una fatwa letteraria grande come un libro di Rushdie, ma devo proprio dichiararlo, la sto già canticchiando, non posso farne a meno.
Andate, tenendo sempre in mano il libro, il contatto è fondamentale per la nostra terapia, a rovistare nei vostri CD o se siete degli amanti delle “cose vecchie” e dei ricordi e delle risposte che in esse si annidano (i lettori ideali per questo e per altri titoli della Tyler) tirate giù le vostre musicassette o i vostri vinili e cercate questo titolo: Express Yourself, secondo singolo estratto dall’album Like a prayer di Madonna del 1989. Non scuotete la testa, lo so che lo conoscete, lo avete anche ballato e sono abbastanza certo che avete chiesto a un dj di metterlo, mentre ingurgitavate ettolitri di vodka al melone per tentare di cancellare l’evento dalla vostra mente. Niente da fare, i ricordi tornano, sempre. Sì, lo so che nella mente di Madonna doveva essere un inno al femminismo, sebbene suggerisse alla ragazza in questione banali trucchetti per capire se il proprio uomo la rispettava abbastanza, ma non l’ho scelta per il testo, bensì per quello che rappresenta, ossia uno di quei brani universali a cui generazioni di ragazzi (e futuri esseri umani problematici) hanno legato i loro ricordi, i loro errori e la loro idea di un “se stesso futuro” capace di capire di cosa aveva davvero bisogno. Avrei potuto scegliere molte altre canzoni della caleidoscopica Madame Ciccone, in arte Madonna, ma questa aveva anche il titolo giusto e il ritmo giusto. La “medicina” per schiudere violentemente i vostri chiavistelli mentali e iniziare a ricordare dove eravate mentre l’ascoltavate, cosa facevate e, sì, anche come eravate vestiti. Il passo successivo, con il brano che va assorbito in loop, sempre senza riprendere la lettura di pagina 24, è iniziare a piluccare nei ricordi alla ricerca di voci, gesti, azioni altrui. Riuscite a ricordare qualche evento avvenuto mentre ascoltavate questa canzone che non riguarda voi ma un amico, un parente, o ancora meglio quello che poi è diventato per voi un estraneo? Basta anche una sola immagine, magari un sorriso, stretto nella vostra memoria, che vi ha fatto immediatamente catalogare quella persona. Perché a noi piace classificare la gente e pensare di averla subito “capita”, quel giorno, in quell’attimo fumoso, mentre Madonna insisteva a rimbalzare nella nostra testa quel bum, bum, bum. Le avremo fotografate quelle persone e non potranno cambiare mai, resteranno così come “sono” fino alla morte. Ecco, è questo l’esercizio preferito dal protagonista di Le storie degli altri: curiosare fra le cose degli altri per capire “perché alcune persone sono più virtuose di altre?”, cercando di convincersi, da ogni fotografia, oggetto e abitudine rubata, che ciò non dipenda da specifici meriti personali, ma solo da come ogni individuo viene “assemblato”. Ecco, Barnaby è convinto di essere stato assemblato “male”, che cosa gli rimane da fare?
Ora potete riprendere a leggere pagina 24, mettere in pausa Madonna, e leggere la prima risposta che Barnaby si dà:
«Non sarà magari che le persone buone sono semplicemente più fortunate?».
Smettete di nuovo di leggere e premete play, a questa domanda dovete dedicare più di un pensiero. Lo so, ci impiegherete parecchio a leggere Le cose degli altri se vi dovrete iniettare Madonna a ogni paragrafo. Beh, dal secondo capitolo potrete scegliere voi la musica, sempre che sia in grado di scatenare i vostri ricordi, ma che non diventi un’abitudine, mi raccomando.
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