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Mutamenti sociali in atto

Creato il 10 febbraio 2011 da Bruno Corino @CorinoBruno

Mutamenti sociali in atto
Scopo della ricerca sociale è comprendere cosa succede nella società e quali cambiamenti sono in atto. La riflessione sui mutamenti sociali è quasi sempre motivata perlopiù da preoccupazione di ordine politico-culturale. In altri termini, lo studioso sociale attraverso l’analisi complessiva della società vuole comprendere quali dinamiche politico-ideologiche si stanno sviluppando e, successivamente, vuole prevedere come si possono tradurre fattualmente. Fino ad oggi, ogni analisi della società prendeva le mosse dalla “struttura di classe”. La tematica del cambiamento della struttura di classe, da Marx in poi, è rimasta al centro della riflessione sociologica quando si volevano comprendere i mutamenti in atto nella società. L’emergere di nuovi classi sociali era uno dei modi tipici con cui i sociologi studiavano il mutamento sociale. Mediante l’identificazione dei nuovi raggruppamenti sociali, che si andavano formando nella società, i sociologi tentavano di personificare i cambiamenti in atto. La struttura delle classi sociali fa riferimento alle diverse posizioni che gli individui hanno nella della società. Si fa dipendere la diversa distribuzione delle posizioni dal reddito, cioè dalla quantità di denaro di cui ciascuno può disporre. Contrariamente alla società feudale, fondata sugli “ordini sociali”, che basava la collocazione sociale sulla funzione che l’individuo svolgeva all’interno della società, la società industriale ha fatto dipendere la loro collocazione sociale sulla base delle risorse disponibili. Le tre funzioni della società feudale erano schematicamente quelle del sacro, del guerriero e del lavoratore, incarnate da coloro che pregavano (oratores), che si battono (bellatores) e che lavoravano (laboratores). Nelle società feudali, il prestigio dipendeva dalla funzione che si svolgeva; nelle società industriali, dipendeva dalla posizione che si occupava all’interno del mondo del lavoro e della produzione; nelle nostre società dei servizi, il prestigio dipende dal guadagno. Nella società industriale la distribuzione in classe veniva decisa dalla condizione occupazionale: dato che diverse occupazioni toccavano ricompense differenziate, la diversa collocazione di classe dipendeva dal diverso reddito percepito. Una maggiore articolazione sulla teoria delle classi sociali è stata elaborata da Max Weber, che ha preso in esame due caratteristiche per suddividere le occupazioni in classi: la situazione di lavoro e la situazione di mercato.
Sia la teoria marxiana delle classi sociali che quella weberiana fanno riferimento a società dalla forte impronta industrializzata. Questi tipi di società, che hanno segnato la storia dei paesi “sviluppati” dalla seconda metà dell’Ottocento sino alla fine del XX secolo, possiamo definirle come “società a benessere limitato o vincolato”, rispetto alle moderne società che si fanno configurando nel mondo attuale, e che definiamo “società a benessere diffuso”. Nelle prime forme di società, i consumi dipendevano dal reddito disponibile, di conseguenza il benessere delle famiglie cresceva in relazione all’aumento dei redditi. I consumi in questo caso dipendevano dalla condizione occupazionale: i consumi erano in funzione delle risorse disponibile, e quindi del reddito che si percepiva in base all’occupazione svolta. Le famiglie a monoreddito limitavano i consumi sulla base delle risorse. Anche la qualità dei consumi era particolare: la maggior parte del reddito veniva impiegata per elevare il proprio status sociale, comprando beni durevoli e duraturi (automobile, lavatrici, televisori, ecc.). Nelle società a benessere diffuso i consumi non dipendono più dalla posizione sociale che si occupa, ma dallo stile di vita che si vuole esibire e, questo stile, a sua volta, dipende dal guadagno che si realizza.
Le società a benessere diffuso sono quelle società che negli ultimi decenni, secondo l’analisi fornita da Adair Turner, hanno conosciuto uno spostamento evidente dall’economia materiale a quella di servizio, spostamento che non solo ha trasformato la composizione sociale di un paese, ma anche e soprattutto la domanda dei consumi: «Il più grande cambiamento strutturale nelle economie ricche in molti dei passati decenni è stato non la globalizzazione ma il continuo affermarsi dell’economia di servizio» (A. Turner, Just Capital. Critica del capitalismo globale, 2004). Turner sviluppa il seguente ragionamento: quando la gente diventa ricca abbastanza da superare il sostentamento materiale, spende proporzionalmente meno del suo reddito per l’alimentazione, e più per auto, lavatrici e televisori. Al di sopra di un certo livello, però, si diventa relativamente saturi di prodotti e cresce a quanto pare senza limiti la domanda di servizi. Tutto questo contribuisce a creare un’economia che, contrariamente a quanto si dice intorno alla globalizzazione, è e diventa sempre più locale. Le preferenze dei consumatori vengono dirottate dai prodotti industriali ai servizi di natura più personale. La gente diventando ricca tende a comprare più servizi, anziché beni fisici.
Per descrivere tali società a benessere diffuso possiamo rifarci alla teoria sociologica di Simmel del trickle-down («gocciolamento verso il basso») e combinarla con la teoria della società dei «cinque quinti», descritta da Tullio De Mauro, ne La cultura degli italiani: «Un quinto di ricchi e, se vogliamo, colti, che si pagano le scuole e le università di alto livello, tre quinti di consumatori a basso reddito e basso livello di istruzione, un quinto di barboni residuali, un profondo sottosuolo nel quale i tre quinti possono essere ricacciati se non rispettano le regole del gioco». Dunque, esiste un primo strato sociale composto da un 20% della popolazione che consuma sommariamente un 50% di risorse, e impiega le sue ricchezze per mantenere un alto stile di vita (servizi alla persona); un 60% della popolazione che svolge lavori legati al servizio della persona e al mondo della produzione, che consuma un 40% di risorse; infine, un 20% che vive di ciò che riesce a raccogliere dal resto della popolazione, fuori dal mondo della produzione (disoccupati, inoccupati, casalinghe, pensionati sociali, emarginati), ma che consuma il restante 10% di risorse.
Ora, quando si parla di risorse economiche non esiste più una correlazione con l’occupazione lavorativa che si svolge, cioè la disponibilità economica non è un dato strettamente correlato al tipo di lavoro che si svolge. Oggi un calciatore o una modella riesce a guadagnare molto più rispetto a quanto riusciva a guadagnare un loro pari trenta o quarant’anni fa. In pratica, un buon calciatore quarant’anni fa riusciva a guadagnare come un meccanico di ottimo livello. Gli stessi manager societari grazie al sistema delle stock-options guadagnano somme notevoli che prima erano riservate soltanto ai grandi proprietari di quelle aziende. Ciò spiega anche perché molti giovani (ma anche meno giovani) aspirano al cosiddetto “successo”. Essi sanno che un buon successo nel campo, ad esempio, dello spettacolo può far guadagnare centomila volte di più di quanto guadagno un operaio alla catena di montaggio. Inoltre, le stesse risorse possono dipendere da varie altre fonti e non provengono più soltanto dal reddito: investimenti finanziari, affitti di casa, rendite, risparmi, evasioni fiscali, ecc. Cosicché si frantumano le teorie della struttura sociale legata alle classi sociali. In altri termini, la posizione lavorativa che formava la struttura di classe non è più un indicatore per comprendere il mutamento sociale. Ciò a cui bisogna guardare sono gli stili di consumo correlati ai guadagni e non la posizione occupazionale o lavorativa se vogliamo effettivamente comprendere i mutamenti sociali in atto. Se osserviamo questo lato della società, allora possiamo comprendere perché in Italia abbiamo 609 automobili ogni mille abitanti; perché il 96,6% delle famiglie ha una Tv a colori; perché gli italiani possiedono 151 cellulari ogni cento abitanti, e usano il computer il 36,7; mentre ci sono il 41,9% di utenti che usano internet ogni 100 abitanti (dati relativi al 2008: Il mondo in cifre 2011, The economist). Anche in Italia, il terziario è passato al 71%.


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