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NARDA FATTORI, IL VERSO DEL MOTO, con note di critiche di Vincenzo D’Alessio e Bruno Bartoletti

Creato il 17 aprile 2010 da Viadellebelledonne

NARDA FATTORI, IL VERSO DEL MOTO, con note di critiche di Vincenzo D’Alessio e Bruno Bartoletti

 

NARDA FATTORI, IL VERSO DEL MOTO, MOBYDICK EDIZIONI 2009

Il vento è penetrato nel nido
ha sparigliato fili intrecciati a conca
avanzo dentro
una deriva di steli e di stecchi
ferite a vista abrasioni
le membra sciolte e incolte
come i fondi di caffè
alla turca bevuto in Macedonia
navigazione a vista
e sempre maldestra
fra scienza e nescienza
fra il fare e il pensare.

Mi siete compagni di viaggio
voi che non v’arroccate
e solo tenete
iI bagaglio a mano
sandali ai piedi da pellegrino
e ossa dure da scheletro
che non cede al fango.

*

L’ombra degli assenti
nella penombra della sera
proietta forme scure
contro il soffitto bianco.
La scontorno stupefatta
posso passarci dentro
nidificare nel vuoto quieto.

Sull’artrosi delle spalle
eseguite tutte le condanne
porto pesi piume affetti
piccole esistenze da nulla
un buco – un mondo intero
e tu sorella tu fratello.

Allora voi restatemi presenti
col profumo dei gesti noti
contro il gran rumore del mondo
che va peripeziando sghembo
senza una meta nota
e sgomma romba ciarla
cacofonie in conflitto
antifone del tempo.

*

Non è mai morta la bambina che fui
si stringe a me con i suoi sogni
sbrindellati
e quanto dolore quanta rabbia
quanto disperato amore…

All’orizzonte della mia sera
si sfilacciano bianchi cirri
strade senza meta
porte che restano chiuse
ma tengo in pugno ben serrati
i sassolini per il sentiero perduto
raccolti dalla bambina

ad uno a uno li lascio cadere
fra l’uniforme grigio
un sassolino bianco
che occhieggia malandrino

sono punti sul rigo
pensieri a capo
ricomincia ogni volta la lenta marcia
sempre all’indicativo presente.

*

Appoggio su un fianco
tutta la mia tristezza
perché non pesi su nessuno
e faccia sponda al mio stare.

E’ giorno di quieta solitudine
quasi beato
risuona la mia sacca di parole
una musica dolce di tregua
anche la soldataglia riposa
anche il dolore ha stanchezze.

Non so dire che cosa
mi rincuori se il bocciolo
del pesco o un canto di mamma
cosa rincuori il mio cuore
se questa nuova preghiera
se questo amore che tace
e mi mette intorno la pace
la pace tutt’intorno.

*

I crepuscoli d’ottobre scendono
rapidi e scavano voragini
sotto le mura dove ridevano i ragazzi

sorridono a spot le ore.

Francesco non ce l’ha fatta
e non chiedere ragione
per il suo salto nell’altrove
ora il suo letto è calmo.

Non c’è impervio da scalare
non una luce manca ci sono abbagli
spessi ceroni sulle piaghe
e noi conformati d’occidente
attendiamo al supermercato
con le borse piene e le unghie curate
che non lasciano graffi visibili

nessuno più è mansueto
siamo stati ghermiti ai saldi
irraggiati dentro i neuroni
e la corrente ci porta
come i topi di Hamelin

e intanto continua il passeggio
d’autunno sui viali
di tigli miti e bruniti
che nascondono Vespero
appena levata
solo sulle fredde vette
la notte è scura e diamantina.

*

Conosco la memoria dei muri
i pesi che gravano
era solo ieri che cantavo
nei cortei di maggio
a gota piena a capelli sciolti
so che tornerò ad incontrare
quello che foste
amici di pizza e di birra
sola
come una dimentica anguilla
a nuotare verso
quale la foce
quale ruscello…

Mi ricordo leggera
a tratti corale senza pudori
la vita che respirava dai porieE volava … volava
come quel cardellino
a cui hanno sparato
all’alba di ieri
una rosa di piombo.

*

E’ rimasta la devozione
a questa mitezza di azione
mentre il pensiero s’adombra
rumoreggia
come un calabrone
chiuso sotto un bicchiere

la mia parola dura un respiro
s’appoggia ad un foglio
non mente non sana
si ripete
senti l’eco? A quale segno
a quale arsura
dentro quale gabbia
mi avrà il giorno finale?

Mi è rimasto un nome
da usare con parsimonia
il mio inizio e la sua fine
e non attendo
nessun altro
battesimo.

***

 Questo volume contiene settanta poesie di Narda Fattori. Settanta note scritte sopra un pentagramma che bene potrebbero rappresentare la timbrica strumentale” allegro-adagio-allegro” che si rivela nelle quattro stagioni di Vivaldi. Si apre con l’armonia schietta della Primavera. Raggiunge il fuoco dolce dell’Estate. Si disperde nelle cadute dell’Autunno. Si rasserena (come voleva Seneca) nell’infinità dell’Inverno. Stupendamente serena. Senza ipocrisie. Viva per vivere in mezzo all’energia  Naturale che ci completa.

 Questa è  opera matura, completa, svolta secondo i canoni della poesia del Novecento, richiamata nelle epitome dei versi di Sereni, Ritsos,Fortini e Carifi,poste all’inizio dei quattro moti del verso. Una esegesi non facile di fronte ad una poetessa che invoca, di continuo in questa raccolta, la Parola come strumento di riscatto ad una intera esistenza. Le strofe formano ora un corpo unico, ora si armonizzano in codici semantici di assonanze e allitterazioni. La chiave di violino, per leggerne l’armonia, è nella prefazione della Tamburini:”(…) L’autrice non li definisce quartetti, e infatti le parti non hanno la struttura poematica del modello eliotiano, ma una loro circolarità musicale è riconoscibile nel moto a spirale che dall’io poetico delineato nel primo movimento, carta d’identità con foto e storia personale, al plurale del secondo tra gli elementi e la parola, all’intersezione dei diversi piani del terzo, vòlto a sintetizzare i precedenti movimenti, muove nel quarto al ritorno al sé proiettato, tuttavia, nella sua dimensione ultima con l’acquisto di una cifra simbolica che eleva liricamente in crescendo tutta la raccolta.”(pag.9)

Vorrei dire che questa raccolta è il testamento poetico della Fattori; mi guardo bene dal farlo; perché spero che la rossa vena poetica  comunichi ancora il suo canto. Ho rispetto sincero per questa poetessa che scrive:”Non è mai morta la bambina che fui/ si stringe a me con i suoi sogni/ sbrindellati / e quanto dolore quanta rabbia / quanto disperato amore…”(pag.31).  Come non sentire il lievito della crescita poetica in questa strofa? Come non consegnare al presente/futuro questi frammenti di eternità? Sono queste poesie la richiesta vera della Poesia, come la Nostra scrive:”(…) il brivido lungo della vita/ e resistere resistere insistere / perché le noti del canto / si sollevino oltre la polvere / verso quel ponte che mi attraversa / e mi affratella.”(pag.22). La poesia che ci divora è fuoco comune, luogo di ritrovo per quelle anime sincere che nutrono l’amore per l’Umanità.  In questi tempi di continue guerre, lacerazioni sociali, fame e miseria, almeno un pane che sfami la mente e nutra i germogli del nuovo millennio.

 Ci vorrebbero molte pagine per descrive l’arco temporale delle settanta poesie messe in armonica sequenza. Ma rischieremo di non essere brevi e questo è un peccato di vanità che non si addice ai poeti. Quindi lascio alla passione del lettore, che come me divora libri per la gioia di leggerli vivendo, il seguito del moto poetico che la Nostra ha voluto trasfondere nelle parti centrali. Mi avvio ad una semplice considerazione finale. La poesia eponima, a pag.88, della raccolta scandisce un movimento che ricorda il “Non chiederci la parola” del nobel Montale. Dove “ le storte sillabe e secche come un ramo “ sono rastremate in una ironia dolce e sagace che fa dire alla poetessa : la morte “proverà  il rispetto che mi deve”. Vorrei che avesse ragione. Desidero che senza “amarezza” il silenzio dell’eternità prenda il posto della viva voce che ora canta, continuandola !  Un desiderio legittimo. La fiaccola della Speranza.

 Tutta l’aria di questa raccolta, ben sistemata sul pentagramma della memoria, dà al lettore quella formula nuova, creativa, non ripetitiva  che la vera Poesia sa inoculare, dagli occhi all’anima, seguendo la strada del cuore. Lo dice con emblematici versi la Fattori:”Io scrivo e altro non so dire./  E non so a chi chiedere perdono.”(pag.62)

Dicembre, 2009     Vincenzo D’Alessio

 

 ****

DARE IL NOME ALLE COSE

 

 L’ampia produzione poetica di Narda Fattori si arricchisce di un nuovo libro che colloca l’autrice tra le voci più autentiche di questi ultimi anni: Il verso del moto, Mobydick, Faenza, 2009. Man mano che si procede nella lettura e nella rilettura – perché questo è un libro che bisogna leggere più volte, quando si giunge alla fine, si avverte la necessità di ricominciare – appare evidente la sua connotazione esistenziale.

   Con gli ultimi versi: Sono pronta finalmente / non mi tiene neppure / quest’ultimo canto, si avverte che il moto ascensionale ha portato la Fattori all’ultimo atto, a fare i conti con la propria esistenza nel momento in cui si chiude, un po’ – il confronto non deve sembrare azzardato – come il Lasciami, non trattenermi, di Luziana memoria.  Anche il canto non basta a trattenerla, segno di un dissidio profondo tra la parola e la cosa, tra la poesia e il suo oggetto, dissidio questo vissuto inevitabilmente da ogni poeta. Solo alla fine di questo percorso, un percorso tutto preparato con precisa meditazione, con eroica e dolorosa accettazione, la morte sembra suggellare ogni domanda al senso più profondo della vita: e infine avrò capito il verso del moto / e saluterò lenta il mio destino.

Con Il verso del moto, la Fattori pone un altro gradino, un altro tassello, ma non involutivo, come a volte capita anche ai più grandi, ma di avanzamento, o, se si vuole, di superamento. Ogni suo libro – è questo procedimento è sempre più raro – rappresenta una tappa importante, l’una conseguente all’altra e con l’altra perfettamente integrata. Dopo, L’una e i falò (1998), Terra di nessuno (1999), Verso Occidente (2004), Cronache Disadorne (2007), ora Il verso del moto segna una ulteriore tappa “nella più assoluta coerenza” in un arco di tempo che è “scandito da fedele puntualità alla scrittura poetica”, come scrive Anna Maria Tamburini nella Prefazione. E questa coerenza, oltre ai temi dell’etica, della conoscenza e della conoscibilità del mondo, diventati “l’asse portante del sistema della poesia e delle arti”, come scrive Mario Luzi, possiede alcuni elementi comuni su cui si sviluppa il suo pensiero. Ci si trova di fronte ad un percorso di vita compiuto, ad un movimento ascensionale che, attraverso le varie tappe, già individuate nelle precise citazioni dei poeti che aprono ciascuno dei quattro movimenti, passa dal ripiegamento su se stessi, svelando i più intimi recessi dell’animo, attraverso il dolore e l’amore resi vivi con la propria esperienza, fino alla tappa ultima, quella di Amore e Morte, quella in cui si racchiude il senso stesso della vita.

È questo il libro in cui si realizza compiutamente quello che Mario Luzi metteva come senso stesso del poetare: “ristabilire un rapporto autentico tra la parola e la cosa”, avere come fine quello di “denominare le cose, dare il nome alle cose, trovare questa connessione fra la cosa e il suo nome”, perché “dare il nome vuol dire anche appropriarsi veramente delle cose e degli eventi, degli avvenimenti…” Se questo è vero, il compito del poeta è quello di “inventare il rapporto tra la parola e la cosa”. Dunque un problema di lingua e di linguaggio, un problema di parole, perché nominare le cose, significa ricrearle, dare ad esse un ruolo, una funzione.

E il primo movimento è una disperata ricerca di parole, una invocazione come di chi ricerca la strada che lo porti, pur tra mille difficoltà, alla conclusione finale, un itinerario orfico (la poesia ha sempre qualcosa di orfico) che lo porti allo svelamento, alla luce, a capire. Dalle esperienze personali (primo movimento), ai temi relazionali (secondo movimento) in cui prevale il “noi”, ai problemi sociali di questa umanità sempre in bilico (terzo movimento) e ancora all’atto finale, la morte che annulla e cancella ma anche che svela e apre tutto il senso del prima (quarto movimento). Ma tutto scorre in una tensione infinita che è la tensione stessa di ogni poeta, quella di trovare il nome, la parola giusta che salvi:.

La sua poesia obbedisce a questa ricerca, non è una ricerca ideologica, non un canto astratto, ma un canto che si cala nella realtà, nella memoria concreta fatta di luoghi, di persone vere, tutti riconoscibili in avvenimenti concreti e recuperati dalla poesia con una scrittura essenziale, nuda e per questo radicata in profondità.

Valga per tutti il verso che accompagna la vecchia Malvina che rincasa a schiena curva, con le borse della spesa, ma a casa l’aspetta il silenzio / dei morti per requiem da dire, o i versi scritti per il nipotino di una dolcezza infinita, o al figlio, o il canto doloroso di ciascuno nei crepuscoli d’ottobre che scendono / rapidi e scavano voragini / sotto le mura dove ridevano i ragazzi, mentre noi attendiamo al supermercato / con le borse piene e le unghie curate / che non lasciano graffi visibili.

Sì, questo suo canto è il canto della vita dove il dolore viene sublimato e salvato come necessità nella consapevolezza che c’è pena da vivere ogni giorno, dove le domande non sempre trovano risposte, o non trovano le risposte giuste, dove, sembra dire, solo un ritorno all’infanzia può calmare questo dissidio e questa sete d’amore (non è mai morta la bambina che fui / si stringe a me con i suoi sogni / sbrindellati / e quanto dolore quanta rabbia / quanto disperato amore…). Allora, quando si aprirà quella porta, tutto sarà compiuto, per necessità, senza drammi, con onestà intellettuale, senza alcun senso di privazione, nemmeno dell’ultimo canto, perché nella donna si riaffaccia la bambina, la semplice bambina di allora che guarda stupita e sorpresa, perché dentro l’ultima ora / danzerà nuovamente la ballerina / del carillon.

 

Bruno Bartoletti



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