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Se qualcuno mi chiedesse qual è il mio anime preferito avrei molte difficoltà a dare una risposta univoca, ma di certo Natsume Yūjinchō è tra quelli che ci si avvicinano di più. Priva di grossi colpi di scena e composta quasi completamente di episodi autoconclusivi, questa serie si fa amare lentamente, svelando a poco a poco il carattere dei personaggi e modificando in modo graduale e credibile le dinamiche tra il protagonista e chi gli sta attorno.
È la stessa visione della vita di Natsume che si evolve nel corso delle quattro stagioni di cui è composta l’opera. Abituato alla solitudine, ma non per questo immune alla sofferenza dell’esclusione, il ragazzo sperimenta le difficoltà di una quotidianità che non può spiegare a (quasi) nessuno dei suoi conoscenti, e anche quando incontra persone capaci di accettarlo fatica a lasciarsi andare, costantemente terrorizzato dall’idea di ferire il prossimo a causa dei suoi poteri. Punto di incontro tra due mondi solitamente separati e a volte in aperto contrasto, Natsume mette tutto se stesso nello sforzo di conciliarli ed evitare di dover scegliere tra uno dei due.
Tra tanti personaggi interessanti e sfaccettati, il mattatore è indubbiamente Madara/Nyanko sensei, temibile yōkai che si nasconde dietro l’aspetto di un gatto ciccione, amante del sake e delle sbronze, ma capace di leggere i sentimenti di Natsume come nessun altro. Tra gli umani, Reiko rimane la figura più intrigante e misteriosa, su cui non si scopre mai quanto si vorrebbe.
Guardando Natsume Yūjinchō si è immersi nel “vero Giappone”, o almeno quello che per me rappresenta la sua immagine più genuina: villaggi in campagna, piccoli santuari poco frequentati e verdi montagne che nascondono l’orizzonte – un’atmosfera che ricorda un altro lavoro di animazione dalle tematiche simili, Hotarubi no mori e. Avvicinandomi alla fine di una serie che sera dopo sera ha lenito il mio cuore malandato, mi sembrava di lasciare un posto che sapeva di casa.
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