Mi gioco subito la simpatia di molti: credo che l’indipendentismo radicale, quello, per capirci, che rifiuta la lingua italiana perché imposta dai dominatori, sia anacronistico ed incapace di attrarre un vasto consenso tra il Popolo sardo. Abbiamo alle spalle oltre un secolo e mezzo di Unità d’Italia, che diventano quasi tre secoli se consideriamo la gravitazione della Sardegna in orbita sabauda. E’ indubbio che Torino prima e Roma dopo abbiano avuto spesso un atteggiamento matrigno nei confronti dell’isola, ma ciò non toglie che i sardi siano stati protagonisti di questa epoca storica, anche se non sempre il loro apporto è stato adeguatamente riconosciuto dallo Stato centrale. Resta il fatto che rinnegare gli ultimi tre secoli significa rinnegare anche la storia dei sardi che hanno versato il sangue per il Regno di Sardegna prima e per quello (poi diventato Repubblica) d’Italia poi. L’italianità dei sardi, anche se con radici meno profonde della sardità, è comunque un dato acquisito di cui necessita tenere conto.
Detto questo, per porre le basi di una Rinascita sarda che non sia, come in passato è stato, argomento utile esclusivamente ad essere strumentalizzato ai fini del consenso da qualche rampante politico, è necessario risolvere una volta per tutte l’anomalia di un popolo che ha un fortissimo senso identitario, basato su molteplici e granitici simboli e valori culturali, ma al quale non viene riconosciuto il conseguente status di nazione. Il riconoscimento di una nazionalità altra, rispetto a quella coincidente con l’entità statale di cui si fa parte, non comporta necessariamente il decadimento di quest’ultima. Ne siano prova gli esperimenti autonomisti spagnoli della Catalogna, Navarra e Paesi Baschi, quelli britannici di Scozia e Galles e, sia pure senza un riconoscimento ufficiale della doppia nazionalità, quello francese della Corsica.
L’unica strada percorribile è mettersi sulla scia delle suddette esperienze, per altro ancora in una fase evolutiva, appellandosi, se necessario, all’Unione Europea in tema di autodeterminazione dei popoli, evitando al contempo sterili revanscismi e mistificate equazioni sulla linea del sardo: bene =italiano: male. Una Nazione, oltre a condividere cultura e storia, deve avere coscienza di esse e in questo senso il lavoro è da fare con i sardi, piuttosto che con lo stato centrale. Occorre ripartire dalle lingue, evitando di accademizzarle e ricordandosi sempre della loro forte connotazione orale che le ha rese così aperte ad un’infinità di varianti; farne veicolo di conoscenza del ricchissimo patrimonio storico e culturale, colpevolmente omesso dalla storia nazionale ed evocato perlopiù in forma caricaturale; offrirlo ai bambini e ai ragazzi non come un supplemento di dottrina, ma dalla viva voce di chi ne ha mantenuto la memoria, nelle forme stesse in cui è stata mantenuta la memoria.
Per costruire una rappresentanza politica che si faccia portavoce di queste istanze bisogna oltrepassare la forma partito, che storicamente si è dimostrata incapace di trovare una sintesi condivisa e soggetta a un parossismo entropico. La ricostruzione culturale, prima ancora che sociale,politica ed economica, della Nazione sarda deve essere conditio sine qua non per chiunque ambisca a rappresentare la Sardegna nelle Istituzioni. L’attuale Statuto speciale, per quanto limitato, offre margini di manovra per un’evoluzione in senso nazionale dell’autonomia. Sta ai sardi trovare la giusta via, evitando oziose contrapposizioni con lo stato centrale e coltivando uno spirito proficuamente collaborativo con Roma e con la Comunità Europea.
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