Licia Satirico per il Simplicissimus
Il rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica presentato pochi giorni fa parlava chiaro: «nonostante i progressi evidenti nei risultati economici, il settore sanitario continua a presentare fenomeni di inappropriatezza organizzativa e gestionale che opportunamente ne fanno un ricorrente oggetto di attenzione ai fini dei programmi di tagli di spesa». Lo sviluppo dei percorsi di rientro sperimentato in questi anni, seppur positivo, non è esente – secondo i giudici contabili – da contraddizioni e criticità, «evidenziate dai frequenti episodi di corruzione a danno della collettività che continuano ad essere denunciati nel settore».
Il pensiero corre subito all’allegra gestione della sanità lombarda, tra il prodigioso San Raffaele di don Verzé, gli orrori della clinica Santa Rita, la Fondazione Maugeri, i Daccò allegri con aerei privati e pacchetti vacanze. Corre alle recenti speculazioni delle case farmaceutiche sui farmaci antitumorali, rei di essere low cost salvo che per vie traverse (come la farmacia vaticana), dove alcuni di essi costano migliaia di euro. Ma non è certo l’unico pensiero, sebbene quelli che lo accompagnano possano meglio definirsi inquietudini alla Pessoa, se non paure quasi gotiche. La prima angoscia riguarda lo sfascio della sanità pubblica nelle regioni in cui i cosiddetti “piani di rientro” degli sprechi sanitari abbiano ridotto l’ospedalizzazione a dato simbolico, da cui occorre fuggire per sopravvivere a se stessi e all’incuria dei medici.
In base a una ricerca del Censis, contenuta nel Rapporto 2012 “Il sistema sanitario in controluce”, gli italiani pronti a fuggire dalle cure cannibali della propria regione sono dieci milioni: esodati sanitari per legittima difesa, per disperazione, per pessimismo o per carenza di posti letto. Il diciotto per cento dei cittadini delle zone ad alto rischio sanitario si è già rivolto a un medico, a una struttura o a un servizio sanitario di altra regione o si è recato all’estero per curarsi, sostenendo spesso in proprio le cospicue spese di viaggio (Alitalia, con metodi estorsivi perfettamente legali, richiede libbre di sangue per il trasporto di infermi in lettiga). Il 37, 6 per cento degli italiani prevede un ulteriore peggioramento della sanità nei prossimi cinque anni, tra nuovi tagli, spending review e impossibili equilibri economici. Aumentano i cittadini che si rivolgono alla sanità privata e affrontano le spese mediche pagando tutto di tasca propria: sono quasi il quaranta per cento del totale degli intervistati.
Un altro motivo inquietudine riguardava le indiscrezioni circolate dopo una una riunione a porte chiuse del ministero della Salute, appena smentite – con tattica ormai consolidata – da un governo ricco di tecnici loquaci e incontinenti. Si parlava con insistenza di un’ennesima riforma dei ticket, da attuare secondo due possibili ipotesi operative: 1) franchigia in base al reddito, con percentuale tra il sette e il nove per mille; 2) introduzione di sei scaglioni di reddito, con ticket modulati per tutti. Il risultato sarebbe stato disastroso in entrambi i casi, producendo una decuplicazione dei costi. Il panico rientra, il timore no. Per il 58 per cento delle famiglie italiane la spesa sanitaria è aumentata del 18 per cento in appena un anno, senza che a un aumento dei costi complessivi sia corrisposto un miglioramento della qualità delle prestazioni. La cosa veramente grave è che la sanità del presente potrebbe essere molto meglio di quella del futuro, in omaggio a una nota legge di Murphy che dice che, toccato il fondo, si comincia a scavare.
Noi raschiamo il fondo dei nostri risparmi, delle nostre speranze, della nostra pazienza, offesi dal fiume occulto di denaro che serpeggia nei grandi affari della sanità trasformandosi nel nulla asettico, desolante, imperito e impunito dei nostri ospedali. Offesi da un Paese in cui guarire dal cancro rischia di essere una questione di censo, in cui la ricerca sulle cellule staminali embrionali è proibita dall’assurda legge 40 del 2004, in cui la razionalizzazione della spesa sanitaria non investe sulla qualità delle cure ma sul rappezzamento delle “criticità”. La criticità vera, viva e dolorosa, siamo noi: è della nostra umanità malata che si discute, fagocitata tra le pieghe dei pareggi di bilancio.