Le prime palle a due del campionato NBA sono appena state alzate nelle arene d’America, ma la stagione 2014-2015 è già entrata di diritto nella storia del gioco. Le trenta franchigie si sono presentate ai nastri di partenza con 101 giocatori non statunitensi tra le loro fila: quarantun’anni dopo la straordinaria impresa di Wilt Chamberlain, anche la somma degli “stranieri” presenti nei roster della Lega ha sfondato la tripla cifra e ha proiettato la Lega sportiva più famosa del mondo nella terza fase della globalizzazione cestistica. Una pietra miliare inattesa? Una sorpresa sconvolgente? I migliori aedi italiani della pallacanestro a stelle e strisce ricordano sempre al loro pubblico che questa “non è l’NBA dei vostri padri”, ma il tessuto connettivo del gioco e la struttura attuale della Lega nascondono infinite potenzialità espansive: il basket mondiale ha tagliato un traguardo o ha raggiunto una nuova linea di partenza?
UNO SPORT METICCIO
La nebbia e la neve di uno degli inverni più freddi dell’Ottocento avvolgono le placide atmosfere del Massachussetts; il profilo di Springfield non ricorda ancora la ruvida comicità di Matt Groening e non si tinge delle sfumature dorate delle arche di gloria, ma i suoi campi fioriti si perdono in una candida coltre di gelo. Mentre il baseball attende la primavera, il football si blocca tra i ghiacci: gli studenti non vogliono allenarsi, gli allenatori delle squadre liceali fremono e i presidi sfogliano la margherita delle opzioni improbabili.
Poi, l’illuminazione.
Le idee geniali sono i frutti proibiti delle menti più tormentate: l’intelligenza sulfurea di un orfano canadese cresciuto fra i libri religiosi e le accette dei taglialegna accende un percorso di tradizioni subalterne e innovazioni sagaci. I giochi delle civiltà precolombiane si fondono allo spirito inglese e alle esigenze didattiche dei professori.
“I ragazzi non devono farsi male: il loro sport è il football. Signor Naismith, le sue attività sono soltanto passatempi per le ore di burrasca“.
Quando la classe arriva in palestra per l’allenamento, due cesti di pesche si stagliano sulle pareti dell’edificio: per uno strano scherzo del destino, i chiodi che le reggono si trovano a dieci piedi dal suolo.
Tremetriezerocinque. Non è ancora una parola sola, ma la sua musicalità sta per cominciare a risuonare anche nelle orecchie italiane di Ida Nomi in Pesciolini e Guido Graziani.
L’idea è affascinante, ma il gioco non ha nemmeno un nome: il professor James Naismith lo spiega brevemente seguendo i tredici principi fondamentali che ha scritto su un foglio volante. I ragazzi lo ascoltano annoiati, ma i primi rimbalzi del pallone scaldano l’atmosfera: la lezione diventa indimenticabile, irripetibile, leggendaria.
Gli studenti esaltano il “Naismith Game”, ma James ricorda le esortazioni all’umiltà che i suoi maestri religiosi gli hanno sussurrato nei momenti più difficili della sua vita.
“No, non gli darò il mio nome. Ci sono un pallone e un canestro: lo chiamerò basket-ball“.
Il gioco si diffonde nelle scuole, fra le ragazze, negli spogliatoi delle squadre che praticano altri sport, fra i giovani: lo Young Men Christians Association lo sceglie come simbolo molti anni prima che un seducente motivetto musicale elevi a una dimensione globale l’influenza pop dei suoi gruppi d’azione. Servono nuove regole e sistemi precisi: la flessibilità totale di un passatempo estemporaneo si trasforma in una filosofia meticcia e accogliente, che riprende con straordinaria fedeltà le origini di James Naismith. Il basketball diventa lo sport dei “globetrotters” americani: all’inizio del Novecento i missionari dello YMCA lo esportano in tutto il mondo e, quando i morsi dei sottomarini tedeschi convincono il Presidente a entrare nella Grande Guerra, i soldati della US Army lo insegnano alla generazione delle trincee d’Europa. Un grande pivot che sbarca il lunario promuovendo i primi landmarks del cinema a stelle e strisce ricorda le sue origini lituane e bussa alle porte dei politici di Vilnius: mentre il calcio e il ciclismo dominano le scene del Vecchio continente e dell’America latina il vento dei canestri comincia a soffiare da Parigi al Baltico, accarezza i tropici e si ambienta nelle steppe di Mosca, raggiunge l’Oriente e s’invaghisce dell’Australia.
IL GIOCO DEL MONDO
Le radici dell’NBA eternauta e internazionale che anima il XXI secolo affondano nel passato remoto della grammatica cestistica: James Naismith non cristallizzò lo spirito della storia americana su un diamante o lungo cento yards d’orgoglio, ma cercò un punto di contatto fra le culture, un linguaggio comune a tutte le genti, una passione che esaltasse la voglia di vivere dei ragazzi di tutto il mondo. Alla forza dell’identità preferì la verità dell’essenza: mentre il football e il baseball sono rimasti nel recinto dei territori governati o controllati dagli Stati Uniti, il basketball è diventato un “global game” capace di abbattere anche la Cortina di Ferro. I popoli del mondo lo hanno interpretato secondo le loro culture e hanno riempito i suoi serbatoi di idee nuove: la società si rispecchia nel socialismo? La mezza ruota esalta lo spirito collettivo dell’umanità nuova! L’organizzazione è la forza del Paese? La gestione tattica della gara trasferisce negli schemi il controllo dell’energia! Il genio e l’estro sono fari di sviluppo? Lo spirito anarchico della strada impregna il parquet col profumo dell’asfalto! Il sistema celebra l’homo faber e il self-made-man? Lo star-system è pronto ad accadere! Le civiltà nutrono i loro modelli e sfruttano i Giochi Olimpici per confrontarsi, ma l’universo americano dimentica l’umiltà di James Naismith: nel secondo dopoguerra, i migliori giocatori d’Oltreoceano sottolineano con orgoglio il loro status.
Professionisti. Maestri del gioco.
I dilettanti del resto del mondo non possono nemmeno avvicinarsi alla loro sicumera ideologica, ma il parquet e il pallone continuano ad accoglierli come fratelli legittimi: nelle rozze palestre dei Balcani, nelle atmosfere controverse del Baltico e nelle affascinanti bomboniere sportive dell’Europa mediterranea crescono generazioni di “malati del gioco”, che cavalcano la loro passione per avvicinarsi agli dèi. L’NBA rimane un sogno impossibile, ma le nazionali più brillanti iniziano a strappare gli scalpi degli atleti collegiali: da Belov a Sabonis, dall’Unione Sovietica delle “stelle compagne” alla Jugoslavia più forte di sempre, dallo shock di Monaco alla rotta di Seoul, dal tour europeo di Red Auerbach al Dream Team. Barcellona regala all’universo la più incredibile epopea sportiva dell’era moderna, ma le azioni delle leggende fanno divampare l’orgoglio dei fans di tutto il mondo: mentre tra le ramblas e le pampas crescono le generazioni d’oro del basket latino, la Grecia e l’Italia aprono le porte ai momenti più belli della loro storia.
L’Atlantico si stringe. Sarunas Marciulionis fugge dalla Lituania e mostra ai tifosi dei Golden State Warriors la straordinaria completezza della sua personalità, ma un suo vecchio avversario non si accontenta di un successo parziale: prende a sassate le Colonne d’Ercole, attacca i pregiudizi con la sua devozione indomabile per la palla a spicchi, suona le sue melodie mozartiane da una sponda all’altra dell’Oceano.
Drazen Petrovic.
Uno dei pochi pionieri che non ha distrutto la civiltà della terra nuova, ma l’ha riempita di idee feconde; un tracciatore di sentieri che, prima di passare a un’altra dimensione, ha infuocato le retine del mondo e ha mostrato ai ragazzi di tutta l’Europa che il “folle volo” verso l’America si poteva fare. Una stella viva, una marcia balcanica di talento che ha convinto gli scout NBA ad allargare i loro taccuini: se oggi la Lega più affascinante del mondo può vantarsi del suo travolgente cosmopolitismo, i tifosi e gli appassionati dei cinque continenti devono il primo brindisi della stagione a Drazen e ai giocatori che hanno seguito per primi le sue orme.
La “generazione Jackie Robinson” trasforma i lampi accecanti di Petrovic in certezze di lungo corso: a cavallo del nuovo millennio, David Stern e molti proprietari NBA cavalcano l’approccio worldwide e lo fanno diventare un mantra dell’organizzazione sportiva più efficiente del mondo. Gli osservatori riempiono i Draft di prospetti “esotici” e gli esperti di marketing diffondono il marchio della Lega in ogni angolo del pianeta, ma la dicotomia fra lo “spirito originario” dei “maestri” e le contaminazioni meticce degli “immigrati” cestistici partoriscono ancora pregiudizi arcigni.
“Gli europei sono troppo soft e, quando conta, si sciolgono“.
THE GLOBAL GAME
Solo l’assalto di un plotone improbabile può far crollare l’ultimo baluardo degli sciovinisti: Pau Gasol e Dirk Nowitzki non bastano? Nessun problema: un vecchio agente della CIA sfrutta le sue esperienze nell’intelligence antisovietica per plasmare un gruppo paradossale e irripetibile. Ci sono un francese di Chicago nato in Belgio, un argentino col nasone e un caraibico strappato al nuoto… Non è l’inizio di una barzelletta, ma il terzetto che ha vinto più partite nella storia dei Playoffs: Tony Parker, Manu Ginobili e Tim Duncan. Intorno a loro cresce un corpo cestistico che parla le lingue di tutti i continenti: un australiano e un aborigeno, un francese del Senegal e un italiano di San Giovanni in Persiceto, un brasiliano e un canadese si uniscono a un nucleo americano capace di seguire la via di Gregg Popovich e arrivano al Larry O’Brien Trophy con una cavalcata ineffabile. Nessun’altra squadra dell’era postmoderna esalta la bellezza estetica e l’essenza meticcia del “global game” come i San Antonio Spurs: la sinfonia offensiva dei geni esotici si abbraccia al lucchetto della metà campo che decide le sorti dei campionati. Il modello nero-argento affascina il mondo e plasma lo spirito cosmopolita degli addetti ai lavori: le franchigie più organizzate si aggrappano alle loro risorse per colmare il gap che divide gli anni di Fort Alamo dall’At&T Center, mentre gli ultimi della classe investono nei progetti affascinanti che avvinghiano gli Stati Uniti alle vecchie periferie dell’universo cestistico. Philadelphia si aggrappa alle promesse future di Dario Saric, Milwaukee cavalca “the Greek Freak”, il sensazionale ammasso di talento grezzo e crescita fisica che sprizza dai pori di Giannis Antetokoumpo, Utah sogna che i salti cangureschi di Dante Exum lanci una nuova era sulle sponde del grande Lago Salato.
Il fascino straniero dilaga e contagia l’intero ecumene: dodici canadesi, dieci francesi, otto australiani, sette brasiliani, cinque spagnoli, quattro italiani e poco meno di sessanta bandiere sparse per il mondo ravviveranno i parquet e le panchine della Lega: nel 1990-1991 solo ventuno atleti non cantavano l’inno americano nelle occasioni speciali, mentre dieci anni più tardi le lingue ferme non erano più di quarantacinque. La proiezione prosegue con il ritmo del doppio e annuncia nuovi picchi: 251 nazioni e territori trasmettono le partite e gli highlights in 47 lingue differenti. L’NBA apre le porte alle musiche e alle filosofie che accendono il gioco in ogni angolo del mondo, ma non perde ancora il suo spirito eliocentrico: i proprietari e i dirigenti delle franchigie vedono il logo che effigia Jerry West al centro dell’universo cestistico e preparano i satelliti del futuro.
Entità locali in una dimensione globale.
“Non è più l’NBA dei vostri padri“, ma “lunga vita ai suoi figli migliori“: che le melodie dei San Antonio Spurs continuino a risuonare nella sfera del gioco.