Calma. Calma. Mantieni uno stato di calma.
Poi sfora. Si divincola. Sguizza e squarta come uno squalo. La realtà è il suo banco di sarde.
L’unica possibilità è cancellare tutto, prima che lo distrugga. Chiudo gli occhi. Quale realtà? Non c’è stata nessuna realtà, mai, né prima né dopo del buio. È un attimo. Un solo secondo di perplessità, uno solo; lo squalo si arresta sconvolto: ma si è fermato un secondo di troppo, è morto, affogato da un’acqua traditrice, o forse dal nulla. Il risultato è lo stesso : niente più sardine per lui.
Ho paura a riaprire gli occhi.
Non so se perché temo abbia fatto grossi danni, o perché sospetto che non ne abbia provocati affatto.
Sento una porta che si chiude. È lei. È tornata.
L’angoscia. Sempre nel posto sbagliato al momento giusto, non un secondo prima né uno dopo. Nessuna squama la sventra. Lei agita il mare, e gli squali, e i banchi di sarde. Non ride né soffre, come un pianista che suona.
Forse nemmeno se ne accorge.
È la mia eterna gravidanza, me la porto nel mio marsupio di paranoie, tra le pieghe della corteccia del cervello.
Ogni passo mi pesa di più sullo stomaco, ogni ora mi abbassa di più la testa e mi corrode i nervi.
Non finirà mai.
Non ho trovato la calma. E in più c’è lei, dietro quella porta. E una realtà postapocalittica perfettamente (o quasi) conservata.
Momento peggiore per riaprire gli occhi.
E per questa ragione squilla il telefono. È la realtà che mi sta chiamando. Inutile non rispondere: ci sono già di nuovo dentro.
Rispondo e non mi dice niente di nuovo. Ho aperto gli occhi e il certo è tornato a confortarmi, sotto forma di apparenza e non di apparizione. Nulla si rivela, tutto c’è e giace. Nulla in questa stanza è entrato senza chiedermi il permesso.
Tranne lei.
L’angoscia. L’angoscia è reale, ma è sensazione e non sostanza, usa l’apparenza per l’apparizione, e mi sconvolge i piani. Architettonici, spaziali, temporali, eccetera. I piani. Non è mai stato nelle mie intenzioni filosofare o stupire con sagaci accostamenti di lettere e concetti. È, questo, solo il mio modo per sottintendere connessioni che ogni giorno pontifico e distruggo. Mille connessioni che poco o nulla c’entrano con il vissuto, così che buona parte della giornata sia vissuta nell’elaborazione della giornata, la quale giornata pure non mi abbandona e mi cinge e resta intorno finchè non muore, finchè l’orizzonte non la risucchia e non la ingoia, prima di risputarmene fuori ancora un’altra. Non la disprezzo, ma a volte sì, a volte l’ammiro, ma non sempre; molto spesso ne approfitto per scaricare sul suo vuoto spaziale e temporale il mio vuoto dell’essere, accusare i secondi che passano o che non passano, le azioni con cui la riempio o non la riempio o forse dovrei, e i doveri e le imposizioni che di certo non vengono da lei ma solo da questa mia ragnatela di connessioni, di pensieri che qualche metafora non vi spiegherà di certo ma di sicuro ve li rappresenterà in graziosa piccola scala, così come il passerotto è ciò che resta di un T-Rex.
E poi c’è Lei.
Lei non scrive per scrivere bene, ma si sforza di scrivere bene per scrivere, e questo le tronca tutte le vie di comunicazione. Persa in una rete di fili che non portano da nessuna parte, teleferiche che girano intorno al mondo e ritornano a lei. Lei non usa il linguaggio per comunicare ma per esprimere, lei non disegna per raffigurare ma solo per liberarsi di forme e concetti che nulla hanno a che vedere con le forme e i concetti del disegno, ma che a ben vedere trovano loro punti di fuga nelle vaghe aritmetiche infinitesime correlazioni tra spessore delle mine, qualità del foglio, forma, cultura, colore. Spesso musica.
Non ho mai capito se lei sia reale, e se lo è mai stato non so neppure se sia ancora viva, sebbene mi ostini a pensare che è, lì, da qualche parte, e che questo mio pensiero probabilmente sia all’oggi l’unica sua forma di vita.