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L'accostamento nasce per forza di cose : il titolo, il bianco e nero della copertina e delle fotografia. Ma nel disco di Springsteen, uno dei suoi album più drammatici, intensi ed espressivi, il bianco e nero di quella indimenticabile copertina, una livida highway del midwest ripresa dal cruscotto dell'auto, con i tergicristalli appesantiti dalla neve, era "mitigato" dal rosso e nero dei titoli, non casuale rimando alla storia noir e di sangue che veniva raccontata o almeno aveva contribuito al tono "perdente" e al crudo ritratto di un America marginale. Nebraska è uno dei punti più alti dell'ispirazione springsteeniana, istigato dal caso di cronaca che nel 1958 vide protagonista Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, lui diciannovenne che uccise la sorellastra di due anni e i genitori di lei e poi si diede alla fuga, con la compagna, dal Nebraska fino al Wyoming lasciando lungo la strada undici morti. Alla fine della corsa lei fu rilasciata perché minorenne e lui condannato alla sedia elettrica e giustiziato il 25 giugno 1958. La storia fu narrata da Ninette Beaver nel libro Caril e raccontata da Terence Malick nel film Badlands (La Rabbia Giovane) ma la vicenda fu in qualche modo responsabile, assieme alla lettura dei romanzi di Flannery O'Connorr, della vena che portò all'album Nebraska, anche se una delle più famose canzoni di quel disco, Highway Patrolman, servì a Sean Penn per un altro heartland-movie ovvero The Indian Runner (Lupo Solitario).
Le analogie finiscono qui, nel titolo e nel bianco e nero, ma chi dovesse vedere il bellissimo film di Alexander Payne, intitolato appunto Nebraska, non potrà fare a meno di trovarci quella desolata poetica delle strade secondarie, qui priva di fatti sanguinari ma inebriata da una contagiosa sebbene amara ironia, che per molti anni ha accompagnato la musica e le visioni di Springsteen. Bisognerebbe chiedersi perché, al di là della cronaca, sia sempre il Nebraska ( e non, che so, l'Indiana o il Kansas o l'Iowa), il teatro del grande nulla americano. La storia è semplice e presto detta: Woody Grant ovvero un magistrale Bruce Dern, è un vecchio scontroso, amareggiato e smemorato, convinto di aver vinto un milione di dollari in quelle fittizie lotterie che sono un veicolo pubblicitario per vendere altre merci. Dern si avventura in un road movie provinciale tra la periferia di Billings in un Montana fuori da qualsiasi circuito turistico ed un piatto ed anonimo Nebraska, per andare a riscuotere il premio, accompagnato dal figlio quarantenne che prima cerca di dissuaderlo e poi lo asseconda in questo viaggio, conscio di regalargli un ultimo motivo di una vita altrimenti incanalata su un binario morto. Nel viaggio Woody Grant ed il figlio (interpretato da Will Forte) incontrano cittadine semideserte e metropoli senza storia, vecchi concittadini, riunioni di famiglia, parenti ingordi ed insulsi, ricordi, liti, riconciliazioni, in quello spirito nomade che è stato uno degli elementi caratteristici dei film della New Hollywood degli anni settanta, evocando pellicole come L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich e il più recente Una Storia Vera di David Lynch, con gli echi però agrodolci del neorealismo italiano.
Nebraska è neorealismo americano blue-collar, il critico cinematografico Giona A. Nazzaro su FilmTv l'ha paragonato per essenzialità e composizione dello spazio, ad una canzone di Howe Gelb dei Giant Sand, personalmente trovo che la narrazione abbia i tempi ed il bianco e nero, magistrale la fotografia di Phedon Papamicheal, delle canzoni dello Springsteen suburbano, una provincia una volta saldamente operaia ed oggi dimenticata dalla crisi finanziaria. La fotografia è superba, desolata e poetica al tempo stesso e contribuisce a delineare lo spirito della storia, il profilo dei personaggi e gli spazi di un paesaggio che non si fa fatica ad accostare al mondo di Springsteen, in primis proprio Nebraska. Fotogrammi che lasciano senza fiato, che a tratti evocano gli scatti di Ansel Adams, quadri di un America profonda colta nelle lentezze di vite ordinarie ed un po' scontate di uomini tristi ed autentici, non ancora sconfitti dalla vita. Alla donna della lotteria che chiede al figlio se il padre ha l'Alzheimer o la demenza senile, il figlio risponde " no signora, è solo che si fida di quello che la gente gli dice". Ed è questa la frase del copione che ha convinto Bruce Dern ad accettare la parte dopo molti anni di inattività, un gigante cocciuto e commovente che non ride mai, non ha mai riso e non pensa alla morte, perché vive già in un cimitero ma al tempo stesso è un monumento ai pionieri d'America, è un puro. (Roberto Manassero, Film TV).
Tra periferie urbane, tristi quartieri residenziali di una lower class senza sogni, cittadine ridotte a ghost town, luminosi scorci rurali, strade dritte nel vuoto, tavole calde misere come gli stessi frequentatori, frammentari dialoghi di una ineluttabilità del vivere, Alexander Payne (A Proposito di Schmidt, Sideways, Paradiso Amaro) costruisce una ballata crepuscolare e malinconica ma capace di regalare attimi di verità e di bellezza, oltre ad una divertente vena tragicomica. Buoni sentimenti espressi però a colpi di amarezza ed ironia. Accompagnate dalla bella colonna sonora di Mark Horton nello stile del Bill Frisell country-oriented, le immagini di Nebraska ci riportano all'essenza del cinema della New Hollywood e a quei road-movie che hanno formato il nostro immaginario americano ed una sensibilità folk-rock del vero sentire (e vedere). Da non perdere.
MAURO ZAMBELLINI
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