Arrivarono i fatidici diciottanni, quelli che ogni adolescente sogna e quando arrivano non cambia nulla se non il fatto che diventi un numero sulla patente e sul certificato elettorale. Arrivarono che quasi non me ne accorsi se non per il fatto che era ora di prendere la patente, la tanto sospirata patente, la fine delle tribolazioni con la Vespa e le corriere. Fino allora andavo a trovare la ragazza in Vespa d’estate e in corriera d’inverno.
La patente significava la fine degli orari, fine delle attese del pullman sotto la pioggia, fine degli stop per strada perché la maledetta candela si era sporcata e toccava tirarla giù e pulirla con la carta vetrata. Ma soprattutto significava la libertà di muoversi e di andare. Dove? Tirando le somme mi ha fatto andare più di quanto desiderassi. Ma questa è un’altra storia.
La patente da noi si prendeva da Tonino. Corsi di teoria la sera alle sette all’autoscuola dietro la Total di Cernetti. Armando cabaretteacher. Era un ex pilota di turismo, aveva fatto diversi campionati tutti alla guida dell’Alfa Sud e ora insegnava a noi il rispetto del codice della strada. Scherzi della vita. Tonino Paparello, il titolare, si occupava delle guide con la Uno diesel, mentre Armando usava una Ritmo. I locali erano angusti e un po’ unti dalla vicinanza col rifornimento.
Entravi e trovavi un corridoietto stretto stretto dove la gente aspettava contro il muro il proprio turno di essere serviti da Stefania, la segretaria factotum, che alloggiava nel suo stanzino e imprecava e fumava e imprecava contro i clienti noiosi. Di fronte all’ingresso si apriva la porta dell’aula di teoria: bella grossa, tre file doppie di banchi da scuola un po’ troppo bassi, pareti tappezzate di pannelli con dipinti segnali e incroci, due finestre che davano sul lavatoio di via Martiri D’Ungheria, la cattedra sopra la quale sedeva Armando.
Le lezioni seguivano un copione: dieci minuti di amenità varie dell’istruttore – che comunque era un abile narratore di barzellette – e poi teoria per mezz’ora. Al termine test. Poi c’era il libro dei quiz da fare a casa (mai fatti) e le lezioni di pratica di pomeriggio.
Era estate piena quando frequentavo la scuola guida e faceva un caldo boia. Dentro quelle macchinette alle tre del pomeriggio si scoppiava ma l’aria condizionata “popolare” era lì da venire per cui era tutto nella norma. Presi la patente a settembre, poco prima della scuola. Avevo fatto anche delle guide con mio padre perché, al contrario di molti miei coetanei e giustamente, babbo mi aveva sempre impedito di toccare la macchina prima del foglio rosa e dovevo recuperare.
Diedi l’esame di teoria senza aver fatto mai un quiz a casa e lo superai brillantemente. Quello di pratica me lo salvò Tonino con la pedaliera sul suo lato nel mentre distraeva l’ingegnere con il giornale. A guidare imparai nei mesi successivi con buona pace della povera Polo argento di mio padre.
Cominciai ad andare a Potenza Picena il sabato pomeriggio dopo la scuola. Ci mettevo quasi un’ora all’inizio. Andare a Civitanova o Macerata era un’impresa. Ma per Natale guidavo in maniera passabile. Tanto che, come ho già raccontato, iniziai ad andare a scuola in macchina anziché con la corriera. I nonni mi regalarono una vecchia Golf diesel molto usata ma in buono stato e quella fu la svolta.
Prendere la patente significò il cambiamento totale della mia vita. Mi sganciai totalmente dalla mia vecchia cerchia di amici e presi ad andare fuori. Avevo la ragazza altrove, amici sparsi per tutte le Marche e anche oltre e una gran voglia di andare via da Montegranaro. Stetti via. Per qualche anno a Montegranaro non mi videro più. Era la fase due. E la fine di questa parte della mia vita.
Abito ancora nel centro storico della mia città, un posto che amo e che vorrei proteggere dall’incuria, la trascuratezza, l’oblio e la pressa pochezza di tanti che l’hanno abbandonato a se stesso nel corso degli anni. I profumi sono cambiati, la gente è cambiata, i plughi della mia infanzia sono degradati, sporchi, privi delle più elementari cure. Ma passeggiando per le mie strade ancora posso sentire con i sensi della memoria i profumi di allora, e vedere i colori, e sentire le voci della gente e dei bambini che corrono per i vicoli attaccati all’apetta degli sformatori, le sgridate dalle finestre delle mamme. Posso vedere ancora l’apetta gialla di Peppe de Vischeretto e la giardinetta di Alfredo de Meletta. Se chiudo gli occhi al posto della caldaia del municipio vedo Nicò de Cesarina che affetta il prosciutto e sento anche l’odore di baccalà e di parmigiano mischiati insieme. Vedo Marietta che sistema i giornali, e Campanà che scarica le bombole del gas. C’è ancora Ivo il calzolaio a darci di martello e lesina, c’è Luzio che aggiusta i filati in vetrina. Con la mente vedo tutto questo. Con gli occhi vedo il degrado e la sporcizia. L’unica cosa che è ancora lì è quella stella della sera, sopra l’ospedale vecchio, ammiccante subito dopo il tramonto. Quella stella mi conforta. Se lei è ancora lì forse facciamo ancora in tempo a rimettere a posto le cose. Le lancette dell’orologio non possono andare indietro. Ma il rispetto per la nostra memoria può essere recuperato.
FINE