La mattina di sabato, correndo via dalla città per raggiungere la mia famiglia riunita per il pranzo di natale, mi sono imbattuto in un incidente stradale capitato forse un’ora prima, e che aveva avuto come ultima conseguenza la congestione del traffico, come nell’ora di punta di una qualsiasi giornata lavorativa. La macchina, una Peugeot nera, era ridotta a un cumulo di lamiere raggrinzite, l’avevano caricata su un mezzo per il soccorso stradale e assomigliava a un animale ucciso e colto per sempre nella rigidità delle membra. A terra, sotto il cielo grigio carico di pioggia, brillavano due lunghi lenzuoli bianchi. In certi lavori di narrativa ho già sperimentato la descrizione di una scena come questa, ma ciò che nessuna fantasia può concepire, nemmeno la più addestrata alle ragioni del macabro, è il punto di bianco di quei lenzuoli inermi. Un bianco abbagliante, luminosissimo, che faceva da contrappunto al grigiore meteorologico della mattina di natale. Improvvisamente ho capito perché nella tradizione cinese e indiana, il bianco è il colore del lutto. Ho riguardato le stesse immagini la sera alla Tv, ma nella realtà filtrata dal vetro delle telecamere quei lenzuoli non possedevano la stessa forza simbolica, in buona sostanza il bianco non era lo stesso bianco. Ho maturato allora una convinzione: si sente spesso dire che la televisione, rendendoci familiare ogni forma di violenza concepita dall’uomo, dalla natura o dal caso, ci disabitua all’orrore. Eppure, nonostante in vita mia mi sia capitato in un numero considerevole di volte di guardare in un telegiornale le immagini di un incidente stradale, scene corredate dalla vista di lenzuoli bianchi che coprono il corpo di chi è morto in un luogo pubblico come la strada, nessuna di quelle rappresentazioni mi ha mai sfiorato in un punto emotivo tanto profondo. Allora forse, ciò che guardiamo abitualmente attraverso il filtro della Tv, non fa che acuire lo scalpore della realtà, quando a percepirla siamo noi soli, con gli occhi scoperti e i nostri cuori nudi.
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