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Nel Paese del vino, la birra scorre a fiumi

Creato il 28 dicembre 2011 da Informasalus @informasalus
CATEGORIE: Salute , Alimentazione
Nel Paese del vino, la birra scorre a fiumi

Sorpresa: il settore brassicolo se la passa meglio di molti altri. Vale oltre 2.5 miliardi e l’export è quadruplicato in dieci anni. Nessun problema? Non proprio. Da tenere sotto controllo: burocrazia, oscillazioni delle materie prime e concorrenza estera
Partiamo con una notizia che pochi conoscono: le birre italiane sono le più importate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ovvero, due dei Paesi a più radicata cultura “birrofila” (gli Usa sono il primo consumatore mondiale). È probabilmente questo l’aspetto più interessante dei tanti flash che aiutano a fotografare lo stato della filiera della birra in Italia. Un settore che – sorpresa delle sorprese – nel Paese che contende alla Francia il primato mondiale dei vini più apprezzati, sta resistendo agli schiaffi della crisi molto meglio di molte altre filiere alimentari, nonostante non si tratti certo di un bene di prima necessità.
Una volta tanto, nessun lungo elenco di cancri che rischiano di decretare la morte di un sistema produttivo. Anche se non mancano gli ostacoli da rimuovere per non frenare le opportunità di crescita.
Una torta da 2 miliardi e mezzo
«Il dato sull’export verso i Paesi anglosassoni dimostra una cosa: gli Italiani la birra la sanno fare, eccome», commenta Filippo Terzaghi, direttore di Assobirra, l’associazione di categoria che riunisce le aziende responsabili del 97% della produzione italiana. Una tesi suffragata da molti dati: la produzione 2010 si è attestata su 12,8 milioni di ettolitri (il picco produttivo del 2007 è lontano ancora 650 mila ettolitri ma il trend è in crescita dopo due anni di lieve flessione). Il settore vale ormai 2,55 miliardi, nei 350 stabilimenti lavorano quattromila persone, cifra simile all’Austria e non lontana dai 5.600 addetti del Belgio. E considerando l’indotto (filiera produttiva, fornitura di beni e servizi, promozione, somministrazione) il numero sale a 144 mila persone. Dati che garantiscono all’Italia il decimo posto fra i produttori Ue, scavalcando Paesi in cui la birra è bevanda nazionale come Danimarca (gruppi Carlsberg e Ceres) e Irlanda (patria della nera Guinness e di altre birre “satellite”).
Non altrettanto bene i consumi interni, che continuano a essere i più bassi d’Europa (28,6 litri pro capite, ma erano 13 nel 1975 e 25 nel 1990), ben lontani dai record di 134 litri fatti registrare dai Cechi, 107 dei Tedeschi e 106 degli Austriaci. Ma è significativo che abbiano raggiunto l’anno scorso i 17,2 milioni di ettolitri (+2,1% rispetto al 2009) e che il trend prosegua anche nei primi 5 mesi del 2011 (+1,7 rispetto allo stesso periodo del 2010). Una dinamica comunque anticiclica rispetto al resto della Ue, dove, dagli 80 litri a testa del 2007 si è scesi sotto i 70. «Non credo che l’Italia arriverà mai ai livelli di consumo europei», osserva Luca Giaccone, autore della “Guida alle Birre d’Italia”, pubblicata ogni anno da Slow Food. «Va però considerato che le birre nazionali coprono i 2/3 dei consumi. E quindi c’è la possibilità di conquistare fette di mercato a scapito dei concorrenti esteri».
Di tutt’altro tenore il capitolo esportazioni, passate in dieci anni da 428 mila ettolitri a 1,8 milioni e dirette in Paesi di grande tradizione brassicola (Regno Unito e Usa, insieme, assorbono il 65% del nostro export). Non a caso, sono le birre di maggiore qualità a risultare più appetibili. Un vero e proprio boom per le birre nazionali, un toccasana per le casse dei nostri birrifici. E un bacino che mostra ulteriori margini di espansione nei prossimi anni.
Retrogusto amaro
E allora, con dati sostanzialmente positivi, dove sono i rischi per la filiera della birra italiana? Si potrebbe evidenziare che la produzione italiana è monopolizzata da 4-5 gruppi industriali. I rappresentanti della categoria preferiscono denunciare i costi di produzione. «Per le birre in bottiglia, la prima voce di costo è proprio il vetro, che può incidere fino al 25% del costo finale», spiega Terzaghi. «Subito dopo c’è il livello delle tasse, che incidono per un altro 20% e penalizzano le nostre aziende rispetto ai concorrenti esteri».
Ma non tutti si sentono di sposare questa analisi. «Non credo che il problema principale siano le tasse troppo alte. Basta dare un’occhiata alle accise negli altri Stati Ue per capire che l’Italia non è certo il Paese più tartassato», osserva Giaccone. In effetti, l’accisa media per ettolitro nella Ue sfiora i 39 euro, 11 in più dell’Italia, con picchi di 96 euro in Gran Bretagna, 125 in Finlandia e addirittura 240 in Norvegia. «Più che il livello delle accise, è allucinante la gestione della tassazione. Burocrazia inutile, registri e comunicazioni obbligatorie, calendari della produzione, controlli noiosi portati avanti spesso con meri intenti vessatori». Come nel caso di un birrificio abruzzese, multato perché sull’etichetta aveva scritto “birra artigianale” anziché “birra prodotta in birrificio artigianale”.
Su altri punti, invece, il parere degli addetti ai lavori è unanime: le materie prime, soprattutto per i piccoli birrifici, rappresentano una voce assai rilevante (fino al 30-35% dei costi totali): «Le oscillazioni annuali – spiega Leonardo Di Vincenzo, del comitato direttivo di Assobirra e titolare del birrificio Birra del Borgo – sono ingenti. Nel 2009, pagavo un quintale di malto 40 euro. Ora lo pago 75». La produzione italiana (66 mila tonnellate nel 2010) anche se in crescita (+13% rispetto al 2009) è inferiore alle necessità: lo scorso anno sono state quindi importate dall’estero 101 mila tonnellate.
A questo si aggiungono altri due fattori: la piaga della concorrenza estera sleale, basata su meccanismi di elusione fiscale. E una possibilità di accesso al credito che molti birrai giudicano inadeguata: «Qualunque impresa in Italia ha questo problema», denuncia Terzaghi. «Nel nostro campo, le uniche al riparo sono le aziende appartenenti a grandi gruppi internazionali. Per gli altri, è un grosso ostacolo. Che accentua il monopolio dei marchi maggiori sul settore». Ma nonostante tutto, il mondo dei micro birrifici è in grande fermento. E i consumatori sembrano apprezzare sempre più i loro prodotti.



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