Scarti e spazi bianchi, interpretati anche come smagliature del linguaggio che lascino intravedere la materialità pulsionale (…) La parte (femminile) che si separa dal tutto, e non per qualche suo interesse particolare ma per difendere il vero e il gusto, pare senza statuto logico. Ma in realtà separandosi, essa non faceva che mettere allo scoperto la parzialità e il privilegio che si nascondevano sotto le forme dell’universale. E grazie a esso, parte femminili che dice per sé il suo amore per la cultura e per la libertà, queste cessano di essere maschere per diventare contenuti di un pensiero vivente che sa la differenza sessuale e la necessità di saperla.
AAVV pag.20
Un soggetto infatti può dirsi tale a partire da sé e non a partire da un neutro che è un’universalizzazione che l’altro fa di sé, proponendosi però non già come l’altro, ma come il tutto. (…) La lingua materna nella quale abbiamo imparato a parlare, a pensare è in effetti la lingua del padre. Non c’è una lingua materna poiché non c’è una lingua della donna. La nostra lingua è per noi una lingua straniera appresa non però per traduzione dalla nostra lingua. Eppure appunto non nostra, straniera, sospesa in una distanza che poggia sulla lingua mancante. Ciò che noi partecipiamo in questa lingua straniera, che pure siamo, non possiamo non essere, è così la distanza che ci separa da essa, essa nella quale ci diciamo non essendoci, essa nella quale ci troviamo ma non ci ritroviamo. In questa distanza si conserva come possibilità la lingua mancante, un bisogno di traduzione che giace nella lingua straniera come desiderio di ritorno alla lingua tradotta e tuttavia mancante, presente solo nella traduzione come un’originale non perduto ma piuttosto mai concesso. In questa esperienza di distanza dalla lingua, trovano spazio vie di fuga a noi ben note: il silenzio, il residuo non detto, il corpo piuttosto che il pensiero. Eppure la storia che ci riguarda è da sempre storie di silenzi, di reticenze, di corpi muti portati al mercato! L’unica via possibile e insieme reale è invece quella che si radica con necessità nell’esperienza quotidiana: l’essere un pensiero che non si è, eppure l’essere imprescindibilmente in questo pensiero, il parlarsi e il darsi in una lingua straniera. Infatti la fuga del linguaggio e tanto impossibile quanto vivo simbolo di un estraneazione divenuta insopportabile. Se io sono il linguaggio dell’altro, decido di negare questa estraniazione negando me stessa; piuttosto che dirmi in un linguaggio straniero allora il silenzio. Simbolo imponente perché nel silenzio ancora meglio mi parlo e mi penso sempre all’interno di quella rete concettuale che ha suoni da me non proferiti. Nel silenzio tace il suono, non la parola. Certo la tragicità di questo sapersi estraniate nella parola appartiene soprattutto alla filosofia. Il discorso poetico narrante ha strumenti più duttili e raffinati per evocare attraverso la lingua straniera i sensi possibili della lingua mancante. C’è infatti una letteratura di donne che parla alle donne; in essa il linguaggio straniero si trasfigura e attinge significati nuovi inusitati, eppure per noi subito familiari. La filosofia ha però una strada più dura, essa deve sobbarcarsi la fatica del concetto a partire dalla rete concettuale presente e dalla storia logica che questa conserva e manifesta. Questa storia ha il suo più potente baluardo proprio nella pretesa neutralità del pensiero: un pensiero oggettivo e universale che come tale non escluderebbe nessuno anzi includerebbe gli uni e le altre indifferentemente nella sua verità. Svelare la neutralità di tale pensiero e la sua valenza di estraniazione della donna, è allora il primo passo necessario verso il pensiero che contempli la donna come soggetto e precisamente come soggetto pensante. Se dunque è impossibile per la donna come per qualsiasi altro parlante uscire con un atto di volontà del proprio linguaggio è però per lei possibile dire attraverso di esso la sua estraneità ad esso. In questo dire la propria estraneità al linguaggio, la donna riproduce in atto la estraniazione stessa: il linguaggio col quale essa si dice estranea al linguaggio è infatti il medesimo. Essa è così il luogo di tale estraniazione che, cogliendosi, si produce come tale. Sembra un bel misero guadagno riconoscere come unica possibilità di autorappresentazione il dirsi una estraniata che in questo dirsi conferma e perpetua appunto il proprio straniamento (…) Alla domanda “che cos’è la donna?” si può così per ora rispondere: la donna è un vivente che ha il linguaggio nella forma dell’autoestraniazione.
Adriana Cavarero pag. 52-54
Brani tratti da Il pensiero della differenza sessuale, Diotima, La Tartaruga 1987
La comunità filosofica femminile Diotima nasce presso l’Università di Verona nel 1983, per iniziativa di donne interne ed esterne all’università http://www.diotimafilosofe.it/
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