Nel vento, l’ultimo romanzo di Emiliano Gucci, edito da Feltrinelli nel 2013, è una storia di corse. O meglio, è una storia che parla di gente che corre, ininterrottamente.
Gucci non è nuovo a storie di persone che scappano. Giunto al suo quinto romanzo, dopo Donne e topi e Sto da cani, usciti per Fazi, Un’inquilina particolare, presso Guanda, e L’umanità, per i tipi di Elliot, il giovane autore fiorentino dimostra, ancora una volta, considerevoli doti di narratore, e una certa originalità.
Il personaggio principale di Nel vento è un centometrista giunto alla corsa della vita, l’ultima corsa, che gli serve e che vuole vincere per mettere un punto fermo nella propria esistenza. E, a ben vedere, si tratta di una corsa che giova per raccontare una vita intera, un viaggio segnato, non diversamente da altri, da dolori, affetti perduti, sangue. Mentre le pagine scorrono con rapidità, si srotolano, attraverso un efficace montaggio alternato, i piccoli gesti di preparazione alla gara e l’omicidio del fratello, la relazione finita con Caterina, una sorta di “ragazza interrotta” spuntata all’improvviso, e il rapporto coi familiari. Tutte interazioni difficili, articolate, possibili da spiegare solo seguendo con attenzione i fili intrecciati dalle vicende che Gucci a sua volta ripercorre.
A partire dall’incipit, perentorio: «Nel 1992 mio padre uccise mio fratello nella neve. Nel 2007 ho perso Caterina per sempre». Si badi bene, però: non è questo il caso dell’ennesimo esemplare di romanzo neo-borghese integrato e disperato; al contrario, Nel vento vive di fiammate narrative, di invenzioni immaginifiche, e si inerpica nel difficile sentiero dell’introspezione con la leggerezza dei bambini e la rassegnazione degli anziani, con la velocità del corridore e la stasi improvvisa dell’affannato.
Il personaggio che, più di altri, incarna lo spirito dello scritto, è quello di Caterina, la quale, come ci dice il narratore: «Traduceva il suo amore nell’adattarsi alla persona che ero, ma anche sotterraneamente nel corrodere le corde che mi legavano all’assurdo».
L’idea di utilizzare le unità di luogo e di tempo, accostata ai frequentissimi flashback, ben si attaglia al finto Kammerspiel messo in scena. L’io narrante è attorniato dai comprimari, chiamati solo col numero della corsi in cui correranno: UNO, SETTE, OTTO, CINQUE, TRE, SEI, QUATTRO, e allo stesso tempo è costretto a fare i conti col sé del passato. Ogni partecipante alla competizione ha una storia di vita e una carriera sportiva diverse alle spalle e motivazioni precise, che il protagonista ben conosce; ognuno è il possibile vincitore e ciascuno comunque candidato alla bruciante sconfitta.
Lo stile è misurato ma acceso di fantasia, e brevissime scene dall’andamento sincopato si alternano a lunghe e più distese digressioni. L’utilizzo di una lingua media, con numerosi accenti colloquiali, rende più efficace e “alta” la comunicazione narrativa, anziché affondarla.
All’interno di Nel vento troverete l’eco decisa di tanta narrativa: da Murakami ad Ammaniti, dagli americani contemporanei al realismo magico. Correndo a nostra volta, con piacere e gioia, e senza vergogna, il rischio di sembrare eccessivi, diremo: una piccola grande avventura pop, quella di Gucci, nella quale il topos del viaggio dell’eroe è in realtà concretato dall’attesa della competizione, e poi dal tempo breve dell’agone. La morale, infine, se ce ne possiamo fare suggerire una, in questa storia bella ma dolente, è che a volte si corre solo per fuggire, per provare a non morire.
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