Un poeta deve essere più utile di
qualsiasi altro cittadino della sua tribù.
Lautréamont
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di Antonino Contiliano
Se è possibile, come crediamo, parlare di una assemblea dei poeti “civili” fuori mercato, raccolti in volumi antologici e collettanei anti-antologici, è anche possibile che gli stessi scendano dall’olimpo della carta dell’economia dell’io privato e dalla neutralità sociale per immettersi nell’agorà diretta degli incontri reali conflittuali e della praxis, sottoponendo la produttività economica e quella simbolica della stessa letterarietà (con la sua esteticità) ad un acre smontaggio polemico.
Perché, come aveva visto la semiologa J. Kristeva (Materia e senso), la letteratura è (piuttosto) una produzione in via di strutturazione, una testualità (come ogni SINGOLA scrittura è un testo che risponde alla tecnica del montaggio oltre che dell’estraniamento) che (già teorizzava G. Della Volpe) ha una sua tecnologia estetico-semantica. E la stessa destrutturazione è una ristrutturazione significante che, pur utilizzando materiali eterogenei, non ruota però attorno a un “valore” estetico d’uso già definito e presupposto come astorico per perpetuare un “valore di scambio” (il significato bloccato) comunicativo unificante come in una “inerzia dei segni” (F. Rossi-Landi). Se la comunicazione è anche un commercio di prodotti materiali e immateriali storicamente determinati, è anche vero che i lavorati artistico-letterari-poetici non possono essere separati dal contesto dinamico dell’insieme delle forze produttive e dei suoi rapporti, sì che il valore estetico non ha un a priori, ma è il risultato di un montaggio che connette praxis e poesia.
La testualità della scrittura poetica è una aseità complessa e densa, che, nonostante l’“ideologema” del costante rapporto forma contenuto, ha un divenire continuo come relazione e correlazione storica di secondo livello che si esercita tra la lingua base e la lingua espressivo-est-etico-politica trasposta poeticamente; l’enunciazione lavorata che lievita nel cortocircuito delle contraddizioni lavorate artisticamente. Il luogo delle vecchie avanguardie, ma anche delle nuove avanguardie open suorce dell’impegno co-operativo.
I materiali della contraddizione sociale e politica, infatti, che diventano i lavorati della produzione poetica e letteraria dopata usa e getta, non hanno, nell’omologazione culturale della società del supermercato dell’eterogeneo formattato, genesi e ciclo diversi da quelli della “feticizzazione” capitalistica, che domina e sussume, sotto la logica dell’equivalenza generale e generalizzata, tutta la vita come merce piegata solamente al profitto privato. E ciò alimentando continuamente il ciclo produttivo standardizzato sui generi gratificanti il consumo del cliente, il quale è a sua volta prodotto e ri-produttore del circuito stesso.
Il cliente è già progettato ed alimentato ad hoc. Le campagne doxa sugli interessi, le motivazioni, i pensieri, etc., fatte dall’industria della comunicazione, legata agli interessi merceologici delle case industriali, è cosa nota per insisterci.
Il circuito capitalistico, però, essendo un mezzo-fine limitato al plus-valore (assoluto e relativo), utile solamente alla classe sociale dominante (e quindi anche qui i suoi limiti), non esaurisce tutta la potenza psico-fisica e intellettuale-immaginativa del “lavoro vivo” o dei produttori reali. E produttori sia di cose materiali che di linguaggi simbolico-artistici o letterario-poetici.
Lo smontaggio, in salsa acre del polemos, deve quindi mirare a fare scoppiare l’identità degli individui appiattita su quella delle cose e delle relazioni salvifiche e beatificanti che, nella società del “valore” dell’immateriale capitalistico, sono fatte combaciare in “immagine” con l’immagine astratta-virtuale e ideologica pubblicizzata. Un’immagine simbolica di moda conformista e passivizzante che l’ideologia della pubblicità sublima come strutturante tutte le relazioni sociali dell’intero sistema (a circuito chiuso e retroattivo), e perciò tesa a disciplinare e controllare l’immaginario individuale e collettivo, servendosi anche delle stesse attività dell’arte e della poesia, della letteratura. I segni dell’ordine simbolico, nella fattispecie della poesia, così risultano intrisi di dispositivi valoriali-ideologici di sublimazione o desublimazione (a suo tempo, in “Arte e rivoluzione”, Marcuse ha messo in luce i meccanismi perversi sia della sublimazione che della desublimazione “erotica”).
Qui, allora, dove l’immateriale letterario e poetico non è più sovrastruttura e menzogna o distacco e isolamento nelle camere da letto dell’anima, il polemos e la critica, da un lato, nelle sue varie facce dell’ironia, della satira, del sarcasmo (versione della parodia “rossa”, Francesco Muzzioli) e dell’allegoria, debbono essere usate come armi “tecno-logiche proprie e improprie; dall’altro “fare il verso al ‘privato’ letterario nel mentre se ne (corsivo nostro) disseziona l’io sul suo tavolo anatomico” (1), scendendo in piazza e in assemblea per un progetto di riappropriazione e di azioni alternative, disalienanti.
Riappropriazione, nella società occupata dalla “mondializzazione” del mercato capitalistico, di se stessi reali conflittuali e del rapporto dialettico con l’altro (quale relazione dinamica ‘comune’ di menti e corpi materiali nel sociale storico), sottraendosi all’etica dell’umanismo soggettivistico e dei vari deragliamenti che cominciano e finiscono in umanitarismi di varia formattazione e orientamento epocale. Distanziandovisi, dunque, con una presa di posizione straniante.
Se “l’irrisione sembra inutile e la parodia coincide con il realismo” – scrive Muzzioli –, l’ipotesi meno ovvia, per la poesia e l’estetica letterario-politica, è quella di raccogliere, facendo tesoro delle stesse indicazioni gramsciane, “l’eredità dell’ironia e di applicarla ‘al quadrato’ alla confusione tra il serio e il faceto: è, appunto, la ‘parodia rossa’ della distorsione nel sarcasmo”. (2)
Se il poeta, come qualsiasi altro poietes, è un produttore di testi, che gioca sulla formazione dell’immaginario soggettivo e sociale (l’altro scenario di guerra di conquista oltre quelli relativi all’accaparramento energetico di spazi e materia-energie: oro bianco, oro nero, gas, energia atomica, orbite planetarie, etc.), che agisce e interagisce in progress e processo, non può che rimanere attivo sul piano della praxis sociale; non può non produrre pratiche significanti poetiche che siano e rimangano mutua interdipendenza e articolazione critica testuale nel/con l’insieme della produzione storica determinata (e in evoluzione), prendendo posizione e attivando tecniche di montaggio stranianti, eterogenee e pluralmente intersemiotiche.
E qui il “valore estetico” della lexis – come guida di conformità exstrastorica, e del significato come “valore di scambio” unificante nella fusione degli orizzonti – non è prefissato come un gettone di scambio a prezzo fissato e fisso. Non precede, ma segue l’intreccio della praxis, in quanto la poiesis non è più disgiunta dai processi reali del simbolico-semiotico e dal terreno storico-materiale che condiziona e attraversa (in una) dinamica di mutua retroazione caso-causale.
Il marchio di fabbrica di una “antologia” che sia “anti-antologia” è un buon indizio (ma non vanno dimenticati anche i lavori poetici di singoli autori, i quali, però, a loro volta, non lavorano per il mercato del consenso acritico, ma producono poesia civile di contro-tendenza.
Da noi non mancano esempi profetici di poesia critica, e del genere indicato (testi individuali o collettivi per montaggio inter-testi) in “assemblea” antologica con nome (curatori) e sine nomine. Da “Poeti contro Berlusconi” (1995), “Poeti contro la mafia” (1995) e “Poesia a comizio” (2008) – volumi che portano il nome del/i curatore/i –, a quelli sine nomine di “Compagni di strada caminando” (2003), “Marcha hacker /risata cyberfreak” (2005),“ ’Elmotell blues” (2007), “we are winning wing” (Noi Rebeldìa 2010) – produzione di scrittura poetica collettiva pluri-stili-semiotica –, per rimanere a quelli a noi più presenti in memoria.
Così, se l’azione continua, e trova altri eredi, non c’è che sostenerne gli incontri, la diffusione e la crescita senza far perdere il rapporto tra la “tendenza” e la “qualità”, e nella tipicità di questo discorso dell’ordine simbolico che si chiama poesia, e poesia civile.
Lo spirito dell’assemblea di “Calpestare l’oblio” (Bartleby, Bologna, venerdì, 11 febbraio 2011) – i 100 “poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana” – trascende allora gli eventi e le date circoscritti. Assume un significato particolare.
La contestuale e particolare contingenza storica della vita politica e culturale italiana del momento, in cui si matura l’azione di questo movimento, lascia spazio infatti per valutazioni che non si esauriscono nell’immediato. E crediamo che la significatività particolare di questa contingenza sia da individuarsi nel fatto che l’assemblea dei poeti e di tutti gli altri soggetti (produttori di cultura), chiamati ed aggregati per far gruppo di ribellione e rivendicazioni, diano alla cultura una valenza “open source” co-operativa e aperta, tra(ns)individuale o di mutua interdipendenza sociale. Una interdipendenza cooperativa che qualifica il singolo quanto il gruppo cui si appartiene, in quanto proposizione di una egemonia socializzante rispetto alla predica e alla pratica diffusa dell’individualismo competitivo, caro all’ideologia dominante del “fai da te” e dell’annesso cinico individualismo apolitico (di cui è imbrattato molto lirismo corrente). Le singolarità individuali, crediamo, infatti, siano nell’insieme delle relazioni reciproche con le cose e gli altri che le costituiscono, anche se ogni unità, così complessa e articolata, poi, nel gruppo o nella comunità, deve sempre agire in prima persona. Può isolarsi nell’astrazione, ma non chiudersi.
L’astrazione, impegnata pur sul terreno di possibili equivalenze ed equazioni, può fare emergere pure le incompatibilità e indurre all’esposizione dei contrasti (utilizzando tra le logiche anche quella dell’“involuzione logica”), ribellandosi alle coperture e spingendo la decisione all’azione collettiva del “noi” eterogeno e comune nella “differenza”, quanto nella ribellione all’egemonia avversa.
Un valore di apertura e connessione (questa nuova “insurgenza” del “noi rebeldìa”) che, secondo noi, trascende il riduzionismo sociologico ed economicistico, e anche la subordinazione meccanica ad un “partito” guida (da qui anche il richiamo al polemos Vittorini-Togliatti con cui si inaugura la costituzione di un “osservatorio” della cultura ad opera del gruppo promotore dell’oper-azione “Calpestare l’oblio”. Vittorini ricordava ai politici che anche i poeti hanno cose da dire, nonché fare, e nella forma che appartiene alla letteratura che interagisce e non ubbidisce senza un’articolazione critica.
Una piattaforma – come si legge nel documento elaborato e diffuso – per un’aggregazione plurale con l’insieme delle forze vive della produzione materiale e immateriale oppositive. Un dialogo come “scambio e approfondimento critico (sull’idea del Politecnico di Vittorini)”, che da un lato sia “raccoglitore di tutte le istanze del mondo della cultura (saggi, articoli, approfondimenti critici, ricerche universitarie, poesie, ecc.), e dall’altro sviluppi e produca il discorso, lo scontro, il dibattito e il dialogo culturale, interfacciandosi anche con il mondo della politica attenta a questi temi, mettendo finalmente in stretta correlazione:
- la “nuova” cultura: i creatori di opere (poeti, scrittori, critici, autori, filosofi, artisti, antropologi, politologi, scienziati, ecc.) e il fermento mappato da riviste, e-zine, associazioni culturali e centri sociali;
- l’università: i collettivi, i ricercatori, i giovani docenti che fanno ricerca;
- il giornalismo culturale: in questo caso l’osservatorio servirà soprattutto da polo informativo per i giornalisti che si occupano di cultura e da spazio pubblico di diffusione e fruizione per tutti i lettori delle migliori “opere” suggerite dall’Osservatorio”.
È una proposta costituente di “sinistra” non ambigua: vita storica determinata come relazione dialettica parte-cipata, e diretta, nel comune come un luogo del conflitto. Un posizionamento plurale di disidentificazione con i modelli correnti dell’io proprietario e competitivo (critica dell’economia poetica dell’“io” liricizzante atmosfere variamente consolatrici e riabilitate dal mercato erotizzato). Pratica culturale socializzante (non bloccata nei giochi del divide et impera del potere dominante) impegnata cioè nella relazione della praxis etico-politica di liberazione in reciproca retroazione. Liberazione dai feticismi della “vita in diretta” e dai tempi reali schiacciati sul presente, o senza un progetto per l’avvenire. Lotta alla spoliticizzazione e ai suoi semplicismi volgari, emozionali, erotizzanti, terrorizzanti e passivizzanti. Processualità di liberazione, cui la cultura e si suoi saperi diversificati (fin dalle rispettive forme estetiche e concettuali più proprie) sono chiamati per agire in campo e in piazza, lasciando le solite corde della musica della camera privata.
Imparare ad imparare (co-agendo) dalle lotte degli studenti, degli operai, delle donne – i soggetti impegnati in prima linea, e in piazza – o da quanto le proteste popolari contro le ingiustizie, e rivoluzionarmente innovative, oggi stanno seminando ovunque (regione africana e araba in particolare), non è più cosa da lasciare alle curiosità, alla svalutazione e all’attendismo.
Ancor più in tempi (come i presenti) in cui i linguaggi, i saperi e le rispettive estetiche risultano sussunti nella produzione capitalistica, e piegati alla sua riproduzione ideologica detemporalizzata, che, a sua volta, è stata aggiornata nel suo maquillage interventista. Per ri-colonizzare menti e immaginario, e continuare nell’esproprio e nel dominio (in funzione del toto-mercato stilvitalizzato), infatti, alle sue dépandance offre democrazia “esportata”, e lasciando come vuoto a perdere, forse, le vecchie alleanze con i regimi autoritari o dittatoriali (non di rado messi al potere da chi oggi, visto il dilagare del fuoco della ribellione, parla di “effetto domino” e occulta le proprie responsabilità dirette).
Nessuna autonomia, insomma, o fuga o comodo o semplice pragmatismo tipico degli accomodamenti bipartisan del politically correct o della realpolitik devianti e della invasiva convinzione che il libero mercato dell’individualismo proprietario rende liberi ed eguali. Forse, neanche il San Sancio Pansa (Stirner) con il suo “Unico” (individuo apolitico) – il solo proprietario delle proprie proprietà – auspicava tanto delirio desocializzante. E nella storia italiana non mancano certo tracce e testimonianze vecchie e (massicciamente) nuove di questa duratura “indifferenza” alla politica che tocca anche questa nostra attuale e storica contingenza italiana di transizione post-fordista. La “con-tingenza” che vede, dopo anni di devastazioni a tutti i livelli della vita pubblica italiana e mondiale, anche la crisi del trionfo del liberismo capitalistico finanziario, il “rubacchione” imprenditore della fabbrica delle menzogne deliberate, erette a sistema. E la cui forma mafiosa e spocchiosa del “cavaliero” di Arcore è quella più bassa e triviale fino alla genuflessione e al baciamano consumato a gloria (fango per il baciapile) di un dittatore quale Gheddafi.
Ma la con-tingenza in corso è un processo, si potrebbe dire, double face. Da un lato c’è infatti lo sfascio antidemocratico ed esasperatamente atomizzato della vita del paese legale, e dall’altro l’emergere di un movimento complessivo di reazione socio-culturale (e anche di assaggio politico) reattivo e attivo come coralità “epica” di nuova generazione. Un’epica corale etico-critica e politica multitudinaria che si fa soggetto agente.
L’azione in campo di un nuovo soggetto, eterogeneamente plurale, che prende posizione per accrescere (non diminuire, Spinoza) la potenza d’essere per contro e quanto di sopraffazione e sfruttamento, paradossalmente, esercita la società liberale del mercato dell’espropriazione assolutizzata (il mercato mondiale che piega qualsiasi forma di capitale dell’economia materiale e dell’economia simbolica al profitto dei pochi e all’infelicità dei molti).
È un’aggregazione di poeti – scrive Gianmario Lucini (e di cui si condivide, senza entrare negli angoli argomentativi, nel recupero dell’impegno sociale della poesia e nella ‘forma’ che le compete) nella sua introduzione al volume antologico anti-antologia “L’impoetico mafioso” – che cerca una nuova egemonia centrata sull’accordo (ne siamo convinti) con nuova consapevolezza e impegno pratico diretto all’universalità progettuale della “differenza” (qualità “particolare” emergente), pur in un presente storico che si scontra con la difesa delle identità.
Una realtà, tra le altre cose, determinata da profonde trasformazioni in corso d’opera incrociante i flussi “migranti” della fame, della disperazione e le guerre di mafie che li capitalizzano, e cui necessita, anche nell’ambito del terreno poetico, una produzione “polietica” epicamente vissuta e praticata, per affrontare, anche sul piano intellettuale, le contraddizioni nella polis globale. Quell’“epica” poetica cioè che, nella della polis, parli al/del “ suo popolo e della sua vita, dei suoi problemi, dei suoi dubbi, delle sue paure ataviche […] una poesia capace di stare dentro la società storica e proporsi con un ruolo molto chiaro, quello di interprete della umanità più profonda, di metterla in scena anche nelle sue contraddizioni e nei suoi dolorosi paradossi. La poesia contemporanea invece, troppo spesso, è la noiosa e monocorde proposta di un “Io poetico” solipsistico, che non si cura dell’altro, ma solo di se stesso, non si sente responsabile del processo di comunicazione […]”. (3)
Necessita, invece, una produzione poetica che si relazioni con la differenza del “singolare plurale” (J-L- Nancy), e sul terreno di una democrazia che, non essendo né un governo di maggioranza, né una costituzione astratta, si eserciti come movimento ininterrotto (la storia non si arresta), il quale, processandosi quale differenza che si altera (G. Deleuze), abolisce lo stato di cose presente.
Una differenza e una soggettivazione che – come si vede dai gruppi d’interesse, resistenza, lotta e rivendicazioni che si aggregano attorno ai “100 poeti” di “Calpestare l’oblio” (“105”, i poeti de “L’impoetico mafioso) – si articola organicamente attorno a un progetto comune discusso e messo a punto insieme (poeti, giornalisti, sindacalisti, musicisti, docenti e bibliotecari precari, studenti e “ricercatori” in rivolta contro la “riforma Gelmini”, etc.), come in una filosofia dell’egemonia processuale oggettivante della praxis di memoria gramsciana antisubalternità. Un agire insieme consapevoli per re-sistere attivi e attaccare qualsiasi tipo di materialismo meccanico del senso comune, e di inerzia rispetto alla presunta inevitabilità degli eventi: la rassegnazione dei preti e l’assuefazione nei confronti dell’attuale dura restaurazione capitalistica; la rassegnazione che vede il modello come necessità naturalistica e sistema permanente.
I soggetti, le opere, le soggettivazioni e le oggettività, invece, sono produzioni storiche; realizzazioni che, come tali, non durano in eterno, e non sfuggono all’intelligenza e alla volontà trasformatrice dei singoli riuniti attorno ad una volontà collettiva di “insurgenza”, costituente alternativa soggettiva-oggettiva. Soggettività e oggettività sono in un rapporto di mutua reciprocità e vivono dinamicamente in con-co-causalità instabile sia sul piano della praxis (non disgiunta dalla poiesis) della lingua, e dei linguaggi in direzione strategica (docet l’ordine nestorico!).
I gruppi che si articolano in incontri e discussioni intessono, infatti, così, un dialogo e un contraddittorio che, sulla base dei punti comuni, mirano a costruire una volontà comune (“un universale contingente”) come una nuova egemonia di liberazione collettiva, che nella Carta costituzionale italiana fondante già trova, fra l’altro, i valori e le potenzialità comuni. Una controtendenza che tende a valorizzare la dimensione della cultura e ad attivare circuiti virtuosi, lì dove il regime attuale dello sfascio anticostituzionale (non ultima la modifica liberistica che aggredisce l’art. 41 della Costituzione), dell’antidemocrazia (marca liberale) e dell’“ideologia della separazione” chiesastica (difesa oltranzista della famiglia tradizionale, anti-abortismo, anti- staminale, anti-biotestamento, etc.).
L’ideologia che tende a livellare e azzerare incontri e scontri sotto i vari golpes della modernizzazione neocapitalistica in corso, e ad opera di una classe dirigente ottusa quanto chiusa al futuro dei giovani.
Un’azione di governo cioè che mira (ancora) ad eliminare qualsiasi conflitto socio-politico antagonista, ad appiattire il livello culturale dell’“uomo e del cittadino”, a criminalizzare il dissenso, far tacere la critica e gettare la cultura nel cestino dei rifiuti; perché tanto, la cultura, ammanniscono i ministri del governo in carica, non “dà da mangiare”.
E poi non ha “rilevanza economica” piegabile (ciecamente) all’aumento del capitale e dei profitti del potere dominante. Anzi (dicono) è usata per erodere e rovesciare le idee del libero (!) mercato, e nei termini del “meno Stato”, oltre che inneggiare contro la precarietà, la flessibilità e la delocalizzazione della produttività, o le nuove guerre e le colonizzazioni che pre-occupano materialmente e culturalmente le istanze di rinnovamento (!) che assillerebbero la mente (in carriera) dei soggetti singoli quanto del/i “popolo/i della/e libertà”.
Così la stessa società del “disaccordo”, capovolgendo il giudizio di inutilità (perché improduttiva) della cultura, ora ne scopre l’utilità contro e pro.
Il book-shopping-marketing dei generi di facile consumo, che generano e riproducono l’ideologia del prodotto di stagione o lanciato dalla moda, non sfugge a nessuno negli intenti. Vendere per vendere e ingrassare il consumo dell’intrattenimento spoliticizzato, accompagnandolo con una lettura della semplificazione immediata e offerta alla percezione emotiva acritica. Senza il taglio freddo della concettualità intellettuale e razionale.
Solo la poesia, perché testualità complessa di pensiero e com-posizione ritmico-sonora o retorico-figurale sfuggente, è – come scrive Francesco Muzzioli – e poco digeribile e senza “casa (editrice) ”, per cui la si emargina dal mercato editoriale e la si relega tra i vizi “privati” o del dolore dell’Io in esilio, perpetuamente in lutto per scelta o per dannazione.
In atto, però, dopo gli incontri dell’assemblea romana al “Beba do Samba” (11 gennaio 2011), la forma di rete degli incontri si sposta e agisce, almeno per ciò che riguarda la presa di coscienza storica anti-separazione, come “un movimento che abolisce lo stato delle cose presente”.
La rete dei “forum” e di quanto di multimedia-attivismo si muove in rete, infatti, è un movimento processuale che, sulla base di una forte consapevolezza etico-politica critica, si pone progetto di resistenza e antagonismo attivo condiviso, e a geometria capovolta.
La lotta contro il degrado, la corruzione e l’immiserimento della vita collettiva italiana, causati dalla trasformazione dei processi economico-sociali in corso a dominanza liberistica – tesi, quest’ultimi (in Italia e nel mondo) a stabilizzare i poteri dominanti e i loro rapporti privilegiati di espropriazione complessiva – si proietta come una piramide rovesciata. La metafora – la piramide è capovolta – dei caracoles zapatisti!
Il re-buffone è solo un clown cattivo che ha perso il vertice! Non esiste un punto che non sia una campo relazionale interdipendente di linee di forza. Quindi un insieme del cum-porsi dialettico. La lezione viene anche dalla “teoria dei sistemi dinamici”, l’elaborazione scientifico-matematica che mette al centro propulsore la “qualità”, lo schema, le relazioni e le correlazioni.
Co-agire cooperativamente, dunque, facendo leva su quanto ancora rimane da realizzare dei valori sociali della Costituzione repubblicana antifascista, e salvaguardarsi dall’assalto continuo distruttivo, operato dai soggetti della ristrutturazione capitalistica postfordista (manca una consistente e reale opposizione delle forze della sinistra progressista); focalizzare l’azione contrastativa rifiutando sia la cultura dell’“ideologia della separazione”, sia la pratica collettiva della re-azione come mobilitazione sociale plurale di singolarità sociali cooperative. Una mobilitazione liberante cioè e condivisa nell’accezione della democrazia radicale-processuale e delle differenze come nuovo “universale”, che la globalizzazione, in ogni modo, ha posto all’ordine del giorno per le piazze del pianeta, e non più eludibile da una politica (giusta) delle nuove alleanze ‘ibride’, mescolate.
“Barbaro”, dice É. Glissant (La poetica del diverso, 2004; La poetica della relazione, 2007) è il monolinguismo del supermercato mondiale dei consumatori tutti eguali e piatti; lo spazio liscio dove, a fronte della creatività del molteplice e dell’incontro degli eterogenei, regnano invece il conformismo e l’omologazione più trasparenti e cinici.
Certamente questa identità “particolare” del “ io noi” rebeldìa plurale ed eterogeneo non è il particolare universale del capitalismo – che va denaturalizzato senza residui –, o quello dei vari fondamentalismi religiosi e di ritorno al “sacro”, ma quello delle nuove identità multiple laiche e delle singolarità sociali che, come quelle delle differenze sessuali o di genere, non sono riducibili neanche alla stessa lotta di classe; lotta che, tuttavia, non va però dimenticata. Non è scomparsa.
Se la lingua dominante odierna ne ha dichiarato il decesso, la ristrutturazione capitalistica modernizzante la conservazione, e la reazione con lo smantellamento dello “stato” sociale e il conflitto di guerra interno/esterno amici/nemici (noi/loro) – chi non è con me è contro di me –, ne attesta invece il vigore e la virulenza classista; così, questa, non è deceduta. Va, semmai, reimpostata insieme ai movimenti interni ed esterni di opposizione. I movimenti quali, nati con il consolidarsi del sistema-mondo global-capitalistico, e del suo mercato assoluto di economia finanziarizzata e militarizzata; le proteste che hanno visto che la lotta sociale si è sovrapposta con quella dell’intera vista di ciascuno, in quanto sussunta nell’equivalenza (astratta) del diritto weltmarkt totalizzante.
Il capitalismo non ha eliminato la lotta di classe. Questa è stata solo spostata. Lo attestano i milioni di disoccupati programmati nel mondo “civilizzato” dell’Eu, quelli provenienti dalle terre “migranti” o dall’Est (Europa) liberalizzato, come anche i milioni di operai e salariati (di fame) nel zone del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina).
È stato stimato – a parte il gota dei ricchi – che nei prossimi anni la ristrutturazione capitalistica e del profitto ha bisogno solo del 20% di manodopera a pagamento, o di lavoro servile. La fame, l’aumento costante della disoccupazione e della povertà, oltre i minimi della soglia, inoltre è, come le devastazioni, le desertificazioni e i genocidi di massa (tra guerre umanitarie o di conquista e dominio), il programma del riassetto che i governi firmano aumentando le spese militari e la propaganda intimidatoria. Il terrorismo strumentale e i “respingimenti” del popolo migrante identificato come l’invasione dei nuovi barbari, i clandestini
In Italia la classe dei notabili, della fascia media e degli esclusi, emarginati e dei “sans” non è certo dato ignoto a nessuno. I numeri Istat sulla disoccupazione giovanile, sulla corruzione legalizzata della classe al potere e sul furto del futuro alle nuove generazioni è poi altra verità incontestabile.
Così, se attorno ai 100 poeti, e al loro manifesto per unire le lotte della cultura, c’erano anche altri soggetti con il cartello delle rivendicazioni di settore, il rifiuto della società liberista e della classe di governo che ne realizza il modello a colpi di mano anticostituzionali e antidemocratici.
L’iniziativa, allora, così non può essere circoscrivibile e riducibile al progetto di pochi profeti o alla località del caso o a una “escandescenza” momentanea di tempesta fuori stagione.
La rete degli altri soggetti – bibliotecari necessari, docenti preoccupati, movimento femminista, studenti universitari, operatori del teatro e della musica, etc. – e la tensione che lega la protesta e l’azione ai fatti circostanti (nazionali e non), infatti, costituisce un movimento di crescita e di consapevolezza della differenza antagonista o “emancipativa” universalizzante, che non vuole separare l’economia del mondo simbolico (cultura) dalla politica, dal contesto storico e da un’azione comune. È una lotta che vuole crescere azione corale, tra(-ns-)individuale, fra tutte le singolarità sociali agite dal bi-sogno della disalienazione e dal risveglio – per avversare lo sfruttamento e la reificazione naturalizzati dei rapporti economico-sociali e politico-culturali vigenti –, portata sullo stesso terreno giocato dalla ristrutturazione restaurativo-privatistica de socializzante che si mimetizza sotto le vesti della modernizzazione. La modernizzazione del neoliberismo capitalistico è, invece, infeudamento e repressione; e tanto più subdoli e penetranti quanto più li si vuole imporre snelli e sottratti al controllo del pubblico, del “comune” e delle forze sociali che ne pagano lo scotto in termini di impoverimento continuo e servilismo dilagante.
La rete del contro-ordine è così una costruzione organizzativa (voluta e controllata) che propone e attiva, nella forma di una molteplicità di relazioni costituente, una diversa socialità co-operativa dell’essere-insieme. Il “noi” collettivo come una tendenza culturale e politica che si oppone alla controtendenza della modernizzazione atomistico-estetizzante del capitalismo neoliberista (per di più lanciatosi sulle autostrade elettroniche capitalistico-finanziarie, e plaudente gli attacchi poliziesco-militari extraterritoriali, le finte guerre umanitarie e le politiche della “sicurezza”).
E della cultura politica, il “noi” mette in rete anche l’arma della poesia come una macchina da guerra che usa la parola e la scrittura testuale come forma d’azione in progress. E la rete è quella che permette anche un feedback di controinformazione in tempo reale per il dilatarsi ragnatela di blogger-poesia alternativa/contaminata dal sociale e per il sociale; e perché è pure (si può dire) l’azione di un soggetto collettivo. Un soggetto del comune che, individuata la concretezza dell’essere l’anti-modello del presente, – la ribellione contro lo stato di cose esistente o dell’estrema parcellizzazione e precarietà competitiva dei rapporti interindividuali, – si pone e propone, dal basso, potenza di trasform-azione e form-azione altra delle cose. E lo propone prima di tutto puntando sul bene comune, sui beni comuni e sulla mutua interdipendenza della molteplicità delle relazioni in atto; e in funzione di una politica relazionale di liberazione a vasto raggio decentrato. Relazioni propriamente necessarie per imprimere alle forze produttive una svolta egemonica di democrazia autenticamente “comunista”. Un’egemonia che incontra cultura e politica tanto sul piano diretto delle lotte e delle realizzazioni socializzanti – sulla base di una revisione del rapporto tra strutture e sovrastrutture dell’economia – quanto sui linguaggi e la politicizzazione dell’estetica verso una produzione di poesia tendenziosa. E da ciò, dunque, anche il pensarsi nella resistenza all’omologazione come disidentificazione individualistica, oggettivadosi invece come soggettivazione collettiva plurale aperta (storicamente determinata) e capacità relazionale dialetticamente immersa nel pratico-pubblico come essere-insieme-gli-uni-gli-altri. E ciò in vista di una universalizzazione processuale delle/a differenze/a , intrecciata/e nei vari livelli della produzione associata.
Non è impossibile l’impossibile!
“Molto è il lavoro, / bisogna fare in tempo. / Bisogna strappare / la gioia / ai giorni venturi. / In questa vita / non è difficile morire / costruire la vita / è tanto più difficile” (Majakovskij); “Non si può vivere / con la morte dentro / bisogna decidere / tra scagliarla lontano / come un frutto marcio / o lasciarsi contagiare / e dunque morire” (Ochoa/Gonzales).
Il “particolare” della ristrutturazione liberal-capitalistica va rigettato perché solamente interesse egemonico classista e sfruttatore; perché pratica di esclusione e di eliminazione; perché affermazione individualistica e chiusa dell’“Io” colonizzante, sessista e maschilista: “…// vi vedo rovistarmi dentro / in cerca di visione esatta / solo voci voi noiosi / rumoristi del pronome proprio / sciamata efficientissimi / significanti / astratti / progrediti / adoratori di ciò che non deforma / perché morto”. (4)
Nella proposta e nella pratica significante della politica del “noi” della “differenza” invece si comunica il soggetto collettivo dell’“interesse disinteressato” e il senso dell’allegoria e della “critica del giudizio” riflettenti (anche e soprattutto la qualità della vita, che si altera e si incrocia quale bene comune per ogni alterità, e nella dialettica materialistica dello stile delle negazioni e degli incontri determinati. Un universale cioè delle differenze quale progetto etico-politico comune non antropocentrico, non classista e non maschilista, e che si articoli invece sulla parità delle “parti” o fuori ogni logica di dominio e di sfruttamento di diseguaglianze ipostatizzate.
Fuori dall’interrelazione della democrazia radicale critica, e dalla giustizia, non c’è tessuto sociale che si formi e si trasformi se non in una con la cultura etico-politica e poietica di ognuno, quanto dinamicamente organica al progetto condiviso: il comune comune.
L’interesse comune che il soggetto collettivo del “noi” di “Calpestare l’oblio” cura mettendo in campo l’unità relazionale di teoria e pratica dei soggetti in rivolta e in controtendenza rivoluzionaria rispetto a quella che è la marcia della “ideologia della separazione”; lo schema che finora ha egemonizzato la formazione dell’opinione pubblica degli italiani, danneggiandola (senza esclusione di colpi e mezzi).
E solamente un progetto di governo della vita comunitaria e pubblica in termini di democrazia radicale, attraverso l’attuazione di ciò che persino nella nostra Costituzione repubblicana può sembrare un’utopia, può costituire un collante e una molla propulsiva, efficace per l’azione di controtendenza. La potenza d’urto e di ricatto delle forze dominanti, che educano alla conservazione, giocando le carte delle innovazioni della paura e del terrorismo strumentale, però, non va ignorato. Non si divertono solo con la fabbrica del divertimentificio e della spoliticizzazione.
Gramsci, allertando sulla “rivoluzione passiva”, amava ricordare che ciò che fu utopico ieri può trovare realizzazione pratica nell’oggi, e pur non uscendo completamente dalle contraddizioni e dalla storicità della politica dei rapporti di forza determinati.
Allora, se la perfetta libertà ed eguaglianza di tutti e ciascuno è progetto possibile, e in questo mondo della possibile utopia il “da ciascuno secondo le proprie capacità, e a ciascuno secondo i propri bisogni” non è impossibile, si può osare e cominciare ad agire insieme. Questo mondo ne custodisce le potenzialità materiali e immateriali. Se le condizioni di attuazione sono strozzate dalle “penurie” economiche e finanziarie, che si mordono la coda tra stagflazione, recessioni e i mitemi della sacralità, non certo è difetto o limite imputabile all’immaturità dei soggetti.
Certo non ci si aspetta che la mafia dei ricatti dei poteri forti, subordinati alla logica gerarchica del governo esercente il monopolio della violenza materiale e simbolica, si rassegni al passaggio dei poteri alla parte-cipazione non servile.
L’innesto di una rivoluzione culturale e politica di controtendenza liberante, allora, e in generale nelle sue diramazioni, come produzione e prodotto sociali sottratti alla logica del “valore” espropriato, – ancora vivo e vegeto nella società dell’immateriale e delle dittature dell’ignoranza e della violenza (i regimi poliziesco-militari, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia, Putin in Russia, etc.; i fascismi variamente dipinti della corruzione e dell’affarismo o quello erotico-estetizzante ed etnico-razzista dell’italico taglio padanio-berlusconesco), – non è una vittoria impossibile o un sogno destinato a rimanere nel cassetto.
Del resto le dittature non sono eterne; occupato il potere per forze di origine endogena aut esogene, sono regimi a perdere e prodotti deperibili per nascita e organizzazione di eventi fuori schemi conosciuti. L’intervento diretto della piazza popolare, che unifica generi e classi e ogni altra differenza stanca di oppressione, sfruttamento, esclusioni, eliminazioni, elusioni (usando le armi della critica e dell’azione collettiva, dal basso del suo essere soggetto collettivo plurale di militanti, e forti di una connessione “flash mob”), è esperienza controllabile direttamente come nel caso delle dimissioni di Mubarak, in Egitto. Sotto l’inarrestabile ondata, la piazza in rivolta, estendendosi giorno dopo giorno, fuori le previsioni degli schemi tradizionali, ha fatto scappare il faraone, attirando altri affluenti nel fiume in piena della rivoluzione rizomatica.
Mubarak è stato costretto a lasciare il potere dalla contestazione popolare auto-organizzantesi in una manifestazione che si è dilata a macchia d’olio per tutto il territorio arabo come una miccia continua e unitaria, pur se non sono da escludere giochi di rimozione e sostituzione nello scacchiere ad opera delle strategie dei blocchi dei mandarinati mondiali e delle loro “casematte” (banche, multinazionali, lobby, etc.).
La deposizione del dittatore è stata cioè effetto di una protesta o rivoluzione popolare pacifica di massa, e in ogni modo fuori dagli schemi della lotta armata. L’uso delle armi da guerra pesanti (e mercenarie), contro il popolo della rivoluzione, il soggetto attivo che vuole una democrazia sostanziale, è solo il deliberato della ferocia calcolata di chi sta per perdere (Gheddafi) tutti i privilegi del potere, e disponendosi alla carneficina del suo stesso popolo (giustamente ribelle).
I 100 poeti di “Calpestare l’oblio” – e tutti gli altri soggetti della cultura riunitisi al Bartleby di Bologna per/con il progetto di unificare le lotte della cultura e del lavoro – ne sono stati testimoni (delle dimissioni di Mubarak) viventi il venerdì dell’11 febbraio 2011, come lo è stato il mondo intero connesso.
E se le dittature sono prodotti deperibili come le merci che continuamente hanno bisogno di fare stragi per riproporsi sotto altre forme, non meno è per le “separazioni “ e le “autonomie” dei saperi e dei linguaggi che si tende ad automatizzare strappandole dall’ensamble culturale e politico dei rapporti di forza in scena.
Un movimento di trasformazione non lascia nessuna cosa indenne. Non esistono essenze eterne e immutabili, se ormai – testimoniano le varie rotture epistemologiche epocali (la scienza moderna e contemporanea) o la filosofia della prassi (da Marx a Gramsci, etc.) e altri orientamenti (femminismo, decolonizzazione e multiculturalismo, per esempio) – maturo e irreversibile è il pensare e l’agire nella contingenza e nella temporalità storica odierna, il contesto determinato storicamente dai rapporti evolutivi globali interconnessi.
Attorno ai poeti dell’assemblea del Bartleby di Bologna così non è mancata la consapevolezza dell’unitarietà della lotta e della ribellione sulla base di un nuovo paradigma (non certamente lineare) che riprendesse, solo per trarre qualche indicazione (dai vari interventi dell’assemblea) di lotta, la forza propulsiva del femminismo (l’intervento della poetessa Renata Morresi) e il vigore di un ritorno alla filosofia della prassi di Gramsci con l’occhio rivolto al sapere della poesia, dei poeti e dei critici (l’intervento di Stefano Colangelo, Università di Bologna).
E sul punto, senza voler dimenticare gli altri contributi, ci piace così rivolgerci agli interventi di Renata Morresi e di Stefano Colangelo; due interventi che, detto per inciso, si possono riallacciare a quello che qualche anno fa è stata la sfida lanciata dal “manifesto della polietica” di Valerio Cuccaroni.
Il documento, insieme agli interventi dialogati e dialoganti, si trovano editi sulla rivista “absolute poetry” di Lello Voce.
Valerio Cuccaroni, oggi, insieme a Davide Nota e Fabio Orecchini, è coideatore anche dell’anti-antologia poetica di “Calpestare l’oblio” (Collana Argo, Edizioni Cattedrale, 2010, copyleft, scaricabile dal sito: www.lagru.org/media/oblio.pdf).
Ritorniamo agli interventi del “Bartleby”. Morresi ha centrato il suo dire denunciando le aberrazioni della contro-cultura maschilista e gerarchica (sessista, misogina, omofoba, razzista, etc.), quanto criticando e indicando i limiti della stessa cultura politica della sinistra. Ma c’è, sottolineava ancora la poetessa, anche l’aggressione al movimento di liberazione delle donne, gay, lesbiche, single, transgender o delle pratiche legate al diritto di scegliere la propria morte come la vita, della reazione dei “movimenti della vita” e di quella della Chiesa cattolica di Ratzinger, nonostante lo scandalo della pedofilia, dilagante tra preti e gerarchie, ne intacchi l’autorità e la credibilità.
Maschilismo e sessismo sono espressione di una ideologia di potere egemonico che soggioga la morale (individuale) al gusto del “dolcegabbana”, divulgato come habitus della moda vincente ed elevato, prepotentemente, come se fosse un stile di massa abbracciato dall’interno genere (il femminile). In realtà l’erotizzazione mercantile del corpo della donna garantisce solo il sistema come produzione e riproduzione di se stesso padre-padrone (modello ancora in voga).
Di contro, ha continuato la Morresi (poetessa di “Calpestare l’oblio”), la necessità irrinunciabile di aggredire l’arretramento e lo svilimento che attanaglia la liberazione della donna, muovendosi attraverso un’azione unitaria uomo-donna (oltre l’ipostatizzata differenza dei generi funzionale a certa antropologia del sistema classificatore, e ossificatore di credenze alienanti).
Una “nuova alleanza”, per usare una metafora di Ilya Prigogine (La nascita del tempo), che avanza rivendicazioni e istanze di cooperazione paritarie possibili. Possibili perché costruibili attorno all’“unità delle lotte” in cui si muove il “soggetto collettivo” (plurale) di “Calpestare l’oblio” (Davide Nota, Fabio Orecchini, Valerio Cuccaroni) o quella della voce della coralità “epica” contro la mafia di cui ai “105” poeti de “L’impoetico mafioso” (Gianmario Lucini).
Una volontà collettiva poetica, questa dei 100 + 105 intellettuali, che aggredisce l’involuzione sociale e culturale con una parola in versi quale programma di azioni e comportamenti di contro-tendenza, utili a sovvertire l’ideologia e la “cultura della separazione” (del nuovo classismo liberistico e di generazione post-fordista), ovvero l’uso globale imposto e controllato ineguale dei diritti e dei doveri, intervenendo sulla trasformazione e formazione dell’immaginario collettivo e attivando un’immaginazione costituente. Una transizione di fase in cui – vigente e imperante la “dittatura dell’ignoranza” (cfr. il dibattito aperto da Guido Viale, a proposito di “There is no alternative”, democrazia…, Carta/Cantieri sociali, n. 14/ 2010, e successivi…; ma anche quelli denominati “democrazia k 0”, a suo tempo, con altri interventi), sostanziata dalla salsa dell’erotico-estetizzante berlusconiana o, come ricordava Cuccaroni in assemblea, dal “fascismo estetico” (Andrea Inglese) – occorre cioè riappropriarsi invece della dignità, oggi più che mai offesa dalla “condizione di illegalità in cui versa questa nazione […] scempio che è stato fatto delle istituzioni che dovrebbero essere democratiche” (Renata Morresi).
Uno scatto felino contro la desocializzazione, la mistificazione, il camaleontismo trasformistico e le false bandiere della/e libertà/e o delle presunte emancipazioni di genere o di classe (libertà ed emancipazione non sono parole neutre e dal significato univoco; contesto e carico ideologico-valutativo ne sanno qualcosa).
Perché, stigmatizzando, la poetessa Renata Morresi, dritta e forte, dice, c’è un inganno. E il trucco
“sta qui: dichiarare che la società è libera, chiamare tutti liberi, rendere la libertà più nominale possibile, cogliere l’attimo, gridare ‘viva la libertà!’ e nel frattempo… sviluppare strategie per ignorare, ridicolizzare, sminuire chi a quella libertà aspira. Ma non ce l’ha, è evidente che non ce l’ha. Sento parlare della sacrosanta ‘libertà di scelta’: ognuna con la sua vagina fa quel che vuole, si dice, siamo in un paese ‘libero’. Certo, ci mancherebbe. Ma le escluse, che sono troppo vecchie o troppo brutte per entrare nel mercato del sesso a pagamento, che libertà di scelta hanno? Una scelta ‘alla Marchionne’, se leggiamo i dati Istat: le donne hanno un tasso di disoccupazione più alto, più alto anche rispetto alla media europea, percepiscono uno stipendio in media più basso e la prima causa di morte per quelle sotto i 44 anni è la violenza domestica. […] Certo, il maschilismo non riguarda solo gli uomini, ma anche le donne. Non solo i leghisti, ma anche i piddini. Non solo i conservatori, ma anche i “progressisti”. Non solo i cattolici, non solo gli italiani, non solo i camionisti, non solo i vecchi, non solo… Il maschilismo è uno dei pilastri di una arretratezza diffusa di cui non ci siamo liberati, insieme all’omofobia, all’ignoranza della cosa pubblica, al razzismo. […] Devo dirlo: io non sento alcuna solidarietà con delle arriviste suprematiste dolcegabbanizzate che pensano solo al modo di farsi mantenere mentre fanno la bella vita. E che esse siano così determinate nel perseguire la loro felicità non mi commuove minimamente. Non mi interessa la loro felicità, mi interessano i diritti di tutti (quindi anche i loro, certo). Quello che mi interessa sono le pratiche di disfacimento della cultura democratica, di avvilimento dei diritti civili, di abbrutimento dei rapporti di potere e di ridicolizzazione della giustizia che il tizio che è capo del governo ha, insieme ai suoi alleati, portato avanti negli ultimi anni, e di cui il più recente capitolo dei festini sexy è lo scenario senz’altro più logico” (Renata Morresi).
Certo, essere consapevoli che non si è liberi da certe sovrastrutture ideologiche, significa anche potersi mettere sulla via di una produzione decisamente oppositiva e in una situazione che faccia saltare fuori un’economia simbolica inconciliabile o disorganica alla produzione e riproduzione del sistema economico-politico dominante, e dei suoi rapporti di potere consolidati. Mai un popolo o una massa può essere libera, né tanto meno una comunità di liberi ed eguali e fratelli (il trittico della rivoluzione francese), o società dove la libertà di ciascuno, anziché limite, agisca da condizione della libertà dell’altro, se il meccanismo produttivo e riproduttivo capitalistico vive e si perpetua distruggendo i suoi vecchi rapporti produttivi, mentre perpetua la produzione di coscienze e soggetti sussunti e asserviti interamente (e sempre) alla sua logica espropriativa e sfruttamento servile. Le discariche cicliche delle crisi e dei commerci, – carichi di impoverimento, fraudolenze, corruzioni, libera circolazione delle merci e del terrorismo colonizzatore – impedendo alle persone e ai flussi migratori della fame e delle fughe di sottrarsi ai genocidi programmati dalle politiche delle spartizioni (escludenti) del profitto, non troveranno mai nessuna guerra di “ingerenza umanitaria” o pseudodifesa di diritti umani che le bonifichi. Solo la giustizia sociale, applicata sostanzialmente, può coniugare libertà ed eguaglianza per come si deve. E in questo processo (dialettica di relazioni e correlazioni), la poesia non deve chiudersi nella sua funzione di autoreferenzialità emotiva e metalinguistica, ignorando la dimensione pratica ristrutturante e significante (immersa nella praxis) orientata alla liberazione.
Essere consapevoli di questo nesso pratico-teorico-pratico di formazione e trasformazione ambivalente, che l’ideologia dominante invece fa digerire al “popolo” della/e libertà mediante un martellante e maleodorante “processo” di potere e strapotere di in-formazione (materiale e immateriale), soggettivante conformismi e deviazioni, significa anche “rivedere” la funzione “mediatrice” e critico-politica dell’intellettuale che, in un mondo che è diventato “sovranazionale” e “trans-individuale”, non sia quella che lo vede nella dicotomia lacaniana del “canaglia” (di destra) o dello “stolto/buffone” (di sinistra), o ironista/umorista e neutrale spettatore…perché tanto “There is no alternative”.
Ma, tra questi intellettuali, sulla cui funzione oggi si ritorna a dibattere (come qualsiasi altro produttore, l’intellettuale che vive e agisce nella/della interazione continua di lexis, praxis e poiesis), ci sono i poeti che usano i versi come un bisturi anatomico-razionale e stile/o ironico-sarcastico, ovvero saturo di acidi appropriati. E gli acidi innescano trans-formazioni e transizioni di fase!
E per rimanere nella “sperimentazione” collettiva e della pluralità delle scritture poetiche, raccolte da “Calpestare l’oblio” e “L’impoetico mafioso”, a titolo di assaggio, riportiamo qualche frammento dall’uno e dall’altro volume.
“In tempi di profanazione delle coscienze /Voi disquisite sul Sacro // In tempi di umiliazione e abbrutimento dei corpi / Voi parlate della bellezza e delle anime // In tempi di ottenebramento organizzato / Voi parlate del fascino della nebbia // In tempi di razzia e linciaggio / Voi parlate d’altro // In tempi di morti dirigenti / Voi parlati di risorti // Mentre i veri preti si confondono con la gente / Voi vi confondete con i preti / E sapere tenere un discorso / Solo laddove non vi può fare male”. (5)
“Lei cita Menandro, Sior Ministro, e cerca di convincere che / chi, come Lei, / liberamente serve, servo non è / (o non capisco e lei intende, addirittura, /d’averci liberato, servendo Lei, / dall’essere servi noi? / Mi dia ascolto Lei che, da Maestro, si genuflette e serve: / non serve / a nulla perdere la pazienza / […] / Lasci stare Menandro, Sior Ministro, ché infine / abolì il Coro. / Lasci. / lasci stare Menandro /, ché il Greco disse anche: / nessun onesto mai si arricchì in breve / (mi comprende?). / Lei non si genufletta, Sior Ministro, più non lo faccia, / che già lo fa tanto, / che non fa altro: dia retta a me, / ascolti il guitto trovatore… / Lei non si genufletta: piuttosto lascia stare, / si dimetta”. (6)
“che ora d’incerta luce ci fu data / che ora – tra giorno e sera – dibattuta /attende la nostra vita ricolma /ora che entra, che sparisce senz’orma / o vago indizio ormai, ora che deflagra / bomba a bomba la città, la vita agra / a palermo – come a roma – s’impiomba / cede il campo – paga il dazio – s’inombra”. (7)
“bruciati/ i sogni della piazza lontana /restano brandelli dei corpi / come braccia scure e sottili / scagliati verso l’alto // avanza il colore dell’inverno / e l’impaurito sole svanisce / nel freddo prima della sera…”. (8)
“Ci mosse / la fame d’aria aprica pulita / la ricerca dell’onestà profusa /d’una etica condivisa / E trovammo / un parco per il nostro tango a bagno / che ci tacitò alquanto / […] È ormai dappertutto il malaffare / Giusto qualche trota locale / non lo vede in malafede / (: solo a noi il fiele) / e mentre lo denuncia altrove / ce l’ha in casa per ogni dove / se lo sushia anche a Singapore / in ogni villa del padrone ladrone / (: attraverso lo speculare iniziava il trasferimento corporale)”. (9)
Una scrittura e un’azione poetica dunque che si propone come un pugno dirompente cooperativo contro il senso comune e nello spirito di una prassi netta e chiara di parte oppositiva al sistema-mondo, e partigiana di un altro mondo è possibile, che è tutto una costellazione emergente alterità e mescolamenti ibridanti.
Nessun sistema simbolico e semiotico può e deve rimanere, nella polis della globalizzazione dell’ibridazione culturale e politica di nuova generazione, estraneo alla lotta contro quanto/quanti fanno strage della realtà democratica acquisita dalla storia delle lotte, dalla memoria sociale e culturale orientata alla liberazione (uno è il problema della libertà, un altro è quello della liberazione), al “bene comune” e ai beni comuni cui tutti hanno interesse e diritto nella realtà storica in cui vivono e si progettano; una realtà che cambia la propria identità come un paesaggio climaticamente trasformato dalle stesse forze che lo attraversano, e nella sua stessa immanenza materiale.
Il pensiero meticcio rifiuta la fusione totalizzante dell’omogeneo e l’incommensurabilità frammentista dell’eteregoneo; “si contrappone alla polarità omogeneo/eterogeneo […] composizione le cui componenti mantengono la propria integrità” (10), ed è l’apertura della molteplicità allo scambio e all’interazione liberante del dialogo tra diversi.
Chiaro è il fatto che l’azione della cultura poetico-letteraria, non scissa dalla praxis, in questo scenario storico, si attualizzi nella scelta estetico-etico-politica di uno stile ironico-erosivo, parodico allegorico, o intriso di grottesco e sarcasmo. Una scrittura etico-politica cioè indirizzata da un lato al disarcionamento critico e suo posizionamento contro le alterazioni spocchiose (illegali e mafiose), e dall’altro alla costruzione di una egemonia culturale collettiva alternativa alla subalternità. Corale co-operativa e di “sinistra” non trasformistica.
In tal direzione, contemporaneo al volume “Calpestare l’oblio” (curato da Davide Nota, Fabio Orecchini – ideatori e poeti essi stessi – e dall’intellettuale e critico Valerio Cuccaroni), si è mosso – come ricordato avanti – il volume collettivo dei “105 poeti contro la mafia”, “L’impoetico mafioso” (curato da Gianmario Lucini, Edizioni Cfr 2010). Come gli ideatori di “Calpestare l’oblio”, pure Lucini, infatti, affida alla poesia una parte attiva e propositiva. Una organicità che interagisce nei processi della vita pubblica dando voce a quanto sfugge alla comunicazione del senso comune.
Comune è così quel piglio ri-flettente, che Lucini indica come “epico”, e proprio fin dalla sua nascita in Grecia: “un’epica da tramandare ai posteri come elemento di identità e di coesione sociale”. Una coesione sociale che, tuttavia, aveva anche un suo “discorso d’ordine” (va ricordato) che rifletteva anche il tessuto gerarchico dominante e le sue contraddizioni di polis governata da una maggioranza di ricchi aristocratici.
Ed anche in questo lavoro collettivo, segnato dai vari stili dei poeti aderenti, la cultura e i poeti sono chiamati alla resistenza attiva contro la rassegnazione; sono chiamati a raccolta cioè attorno alla cura dell’aspetto etico-pratico quali critici e stimolanti costruttori di lavori estetico-poetico non scissi dal sociale storico. Il dovere della memoria di essere una relazione d’inter-dipendenza, per l’esercizio della responsabilità nelle scelte di ogni atto della vita che coinvolge se stessi e il rapporto sociale con gli altri, appartiene a tutti come gli stessi diritti e le capacità come potenze processuali.
Nel paese dei giochi e dei balocchi, delle “trote” o dei “servi genuflessi”, del malcostume e delle impunità dilaganti non sono consentiti astensioni, “ritiri sull’Aventino” o deroghe qualsiasi.
Così il Cuccaroni (riportiamo qualche punto dal suo “manifesto”, la “Polietica”) scrive: “La Polietica è sovranazionale. […] Dobbiamo tornare a immaginare! […] Il polieta deve polieticizzare le masse. […] Il polieta è pienamente inserito nel contesto sociale in cui vive, conosce e collabora con le altre forme espressive e associative. […] Dichiariamo morta la poesia in scatola. […] È giunta l’ora di partecipare e procedere a una sistematica occupazione poetica dello spazio.
Un appello, come si vede, indirizzato ai poeti. I poeti che, chiamati attorno alle “armi della critica”, debbono misurarsi con il ritmo che sa connettere poiesis e praxis etico-politica conflittuale, e di segno contrario alla “trascendenza” del poeta spettatore. Il soggetto poetico dell’“io noi” cioè non deve stare al riparo, e guardare dall’alto dello scoglio lo spettacolo della tempesta che oggi agita la vecchia agorà. Il pubblico e comune odierno, intricato fra rapporti reali e quelli virtuali, i quali identificano le cose con l’immagine dei loro simulacri, non vuole contemplazione o il ritiro dietro le sicurezze garantite.
Il vecchio e il nuovo che, nel postfordismo, fa convivere feticismo vecchio (i rapporti sociali come cose/merci) e nuovo (i simulacri come relazioni concrete e vive), unitamente all’aumento di complessità del mondo, fra l’altro, ne è una secca smentita; perché è una realtà che sia nelle periferie che nei centri mescola, contemporaneamente, vecchia (pesante) industrializzazione e nuova (leggera) industria dell’immateriale ristrutturando dialetticamente tutti i rapporti (diretti e indiretti) che la concretizzano unità molteplice. Ma, facendo galleggiare tutto e tutti tra una bolla finanziaria e un’altra, e innescando falcidie culturali e politiche (sconvolgenti gli schemi consolidati), ancora una volta testimonia di come la coscienza sia una consapevolezza condizionata dall’essere sociale. Così la praxis, della testualità poetica, deve fare i conti con le forze conflittuali in corso.
Quasi per tacita e sotterranea circolazione di idee e presupposizione di praxis culturale etico-politica critica, Stefano Colangelo (ricercatore, Università di Bologna), nell’assemblea (Bertleby, 11 febbraio 2011), centrava il suo intervento sul pensiero di Gramsci (par. 49 del Quaderno n.4, gli intellettuali) circa l’inestricabile rapporto, nella poesia, tra lexis e struttura. E il rapporto con la struttura, oltre ad essere visto (crediamo) nel suo nesso di economia semiotica (interna al singolo testo) presupponesse anche un’intentio e inventio rivolte all’extratestualità storica complessiva del contesto, e nelle sue valenze assiologico-ideologiche. Il nesso forma-struttura-contenuto-topoi, nella scrittura dei poeti, è così relazione coerente e unitaria indivisibile, come alto è lo spessore dell’attività intellettuale unitaria che Gramsci riconosceva ai poeti: “i poeti sono/fanno parte del grado più alto dell’attività intellettuale. Più alto, per Gramsci, significa dotato di maggiori responsabilità”. E il grado più alto della responsabilità cui chiama Gramsci – e sposata (crediamo) dallo stesso Colangelo – non è quella della cultura o di una poesia subalterna – che divide la forma dai contenuti o dal “general intellect” poetico e la struttura dalla contestualità materiale che muove le forze –, ma quella di una assunzione delle contraddizioni usabili come grimaldelli per uscire dalla palude dei consensi metastorici di casta e di classe.
I poeti non devono fare gruppo a se stessi, o rimanere separati dagli altri e dalla temporalità storica immanente che li coinvolge e li attraversa da parte a parte. Perché i poeti, come intellettuali – scriveva Gramsci – hanno il compito di stimolare il passaggio della coscienza popolare (in vista di una egemonia propria e rivoluzionaria) dal semplice “sentire, al comprendere, al sapere” (“L’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre comprende e specialmente ‘sente’, Q 1505” [11]); e l’effetto è tanto forte quanto il contenuto, pur espresso in forma estetico-poetica, è vicino dunque al “sentire” del popolo degli sfruttati, degli oppressi e di quanti si sentono venir meno il terreno coltivato dalle conquiste democratiche raggiunte. Perché la “rivoluzione” delle forze produttive, dalla classe dominante, è gestita per riprodurre se stessa, lasciando intatto il meccanismo del lavoro servile e dell’ideologia culturale addomesticante e ossequiosa, lì dove l’avanzare democratico è una cultura antiservile e un impegno sul fronte della lotta di liberazione.
Una qualità (questa del “grado più alto”) dei poeti, continuava, Colangelo, che è di controtendenza, se si pensa (come si osserva senza infingimenti) che oggi questa qualità viene riconosciuta invece ai “ministri”; personaggi al potere (quest’ultimi), in verità, sinistri e per di più ignoranti e sprezzanti la cultura in genere e quella critica di controtendenza in particolare (cfr. tutta la stampa servile che si è scatenata attorno all’uscita di “Calpestare l’oblio”, solo per un esempio tra gli altri).
Perché con la cultura, qualcuno (specie i ministri Tremonti e Brunetta), per non dire degli altri leghisti che praticano il linguaggio della sporcizia e della bêtise, recita che “non si mangia”, e si pensa, invece, a criticare e a infastidire quanto (pericolosamente?!) a sbugiardare il governo dei padroni, della restaurazione (a tutto fiato) e degli illeciti.
I critici, invece, continuava Colangelo, schematizzando ancora il suo intervento sulla posizione gramsciana (e anticrociana) riguardo la poesia, “devono cogliere anche la struttura di un testo di poesia”; perché, come nel mondo della produzione non poetica, anche nella poesia il tutto e le parti sono in uno stato di relazione integrale e di coerenza processuale reciproca (e non per questo priva di buchi o punti deboli).
Non esistono costanti che rimangono tali se non ideologicamente feticizzate e naturalizzate.
L’organicità di un testo di poesia, analogicamente, è come l’organicità stessa dei poeti e degli intellettuali; è connessa ai movimenti progressivo-rivoluzionari di cui sono parte, e di cui sono Il “grado più alto”, insieme al fatto di essere anche il più rischioso. Ma più ironico, parodico e sarcastico passionale è lo stile dei poeti (scriveva Gramsci), più sono efficaci e utili (Lautréamont: “Un poeta deve essere più utile di qualsiasi altro cittadino della sua tribù”). Il sarcasmo, che per sua ventura è una “lacerazione” della carne, intanto lecca e fa leccare le ferite che il contatto esterno provoca snidando così i rifugi (fuggi fuggi) dell’intimità privata, e aprendo delle falle nella nave dei privilegi. La poesia ha allora un suo specifico valore d’uso estetico (utile) che nasce dal/nel mondo della praxis; e la sua valenza si concretizza nel mentre del montaggio stesso dell’espressione testuale in quanto tecnologia semantica (disalienante), che non presuppone il “valore” come un già dato trascendente il tempo in cui nasce o una proiezione più in là dell’azione “a venire” come un tempo (indeterminato) delle favole del “ci sarà…”, anziché del “ci fù”.
Così più “utile”, e di “alto grado”, è un poeta, quanto più il suo stile “ironico-sarcastico” incide e sveglia le coscienze verso la praxis trasformatrice in atto; e quanto più si pone anche intellettualmente organico all’emancipazione, alla liberazione e all’egemonia culturale-politica democratica dell’essere-insieme-con i movimenti che lottano vs “S. Precario” e i summit dei vari “G8”.
E i movimenti sono i soggetti sociali della co-operazione aperta e dell’impegno; le singolarità sociali cioè che lottano contro il potere dominante e la sua riproduzione permanente, mostrando che un’altra egemonia particolare – quella dell’universalizzazione della “differenza” – è possibile facendola maturare e elevandola dalla contingenza (che l’ha messa in cantiere), a valore di unanime condivisione di democrazia radicale. E tutto ciò non è processo indolore!
La strategia e il “gusto” della lacerazione piuttosto che della consolazione, qualificante la produzione letteraria e artistico-poetica che, nel tempo delle “magnifiche sorti e progressive” di ieri, ha interessato poeti come Leopardi, oggi, tempo di accelerazioni e crisi più acute e ravvicinate, non può non abitare i poeti delle nostre generazioni, quanto gli stessi teorici della critica letteraria e della filosofia politica in particolare.
Gaspare Polizzi (studioso di filosofia contemporanea, e leopardista), in “Ritornare a Gramsci”, ha trovato ri-flesso sia nel pensiero di Leopardi, sia dello stesso Gramsci (il Gramsci che analizza la cultura degli intellettuali e dei poeti che hanno attraversato il Risorgimento italiano) la funzione dell’ironia e del sarcasmo, usati come un punto di vista altro; il punto di vista capace di “tra-durre” il giudizio valutativo politico negativo in conativo formato estetico-po(i)etico, e senza (per questo) pregiudicare il proprio del linguaggio poetico stesso.
E il discorso poetico che “Calpestare l’oblio” e “L’impoetico mafioso” portano avanti, nell’insieme delle realizzazioni testuali, ci sembra, abbia non poche punti di contatto con quanto Gaspare Polizzi ha rilevato in “Ritornare a Gramsci”.
“Se da un lato è inutile ribadire il ruolo dell’ironia e del sarcasmo nell’opera leopardiana, con modulazioni già riconosciute nel Discorso, ma presenti nei Canti (si pensi alla Palinodia al marchese Gino Capponi) e costitutive delle Operette e dei Paralipomeni, dall’altro è stato ampiamente valorizzato il ruolo del sarcasmo nei Quaderni, a partire dalla stessa distinzione gramsciana tra ironia e sarcasmo. L’ironia è propria degli intellettuali ‘tradizionali’: ‘Ironia’ può essere giusto per l’atteggia-mento di intellettuali singoli, individuali, cioè senza responsabilità immediata sia pure nella costruzione di un mondo culturale o per indicare il distacco dell’artista dal contenuto sentimentale della sua creazione (che può ‘sentire’ ma non ‘condividere’, o può condividere ma in forma intellettualmente più raffinata). Ironia equivale a ‘una forma di distacco piuttosto connessa allo scetticismo più o meno dilettantesco, dovuto a disillusione, a stanchezza, a ‘superominismo’. Invece, aggiunge subito dopo Gramsci, ‘nel caso dell’azione storico-politica l’elemento stilistico adeguato, l’atteggiamento caratteristico del distacco-comprensione, è il ‘sarcasmo’ e ancora in una forma determinata, il ‘sarcasmo appassionato’ (Q 2299-2300)”. (12)
Sì che, anche seguendo questa puntualizzazione correlativa, fatta all’insegna del “ritorno a Gramsci” con la sua attenzione ai poeti, non si può non sostenere e rinforzare il discorso e le iniziative dei 100 poeti di “Calpestare l’oblio” (idem per i 105 de “L’impoetico mafioso”). I poeti cioè tesi alla prassi e alla pratica di una “nuova egemonia” nascente dalla parola “epico-corale” critica. Un posizionamento che non ripeta la mimesi del “discorso d’ordine” e del “dispositivo” di controllo ideologico che non mancò nella democrazia dell’aristocrazia greca, ovvero nell’assetto sociale che separava i liberi – maschi, ricchi, padroni e guerrieri – dagli schiavi e dagli esclusi in genere, e curi invece l’impegno per una nuova collettività multiculturale plurale; un assetto dinamico dove la poesia civile “insurgente” e urgente, abbandonando i vecchi schemi della separazione e della subordinazione gerarchica tra gli stessi generi (letterari e di gender), trovi la sua funzione di vitale lievito attraverso il terreno inquieto delle contraddizioni materiali.
Perché, come certe rivoluzioni sono nate da soggetti diversi da quelli che erano stati individuati più idonei e probabili (soggetti storici – come la classe operaia – presunti portatori sani della coscienza dell’universale), così può succedere ed essere, in un momento storico particolare come il presente, per la pratica di una nuova generazione di poeti protesi verso l’azione dell’essere-insieme. Una temperie cioè in cui, a sinistra, si ri-pone già (culturalmente e politicamente) il problema di un nuovo “universale egemonico” (quale la questione della “differenza”), e di cui la filosofia politica torna ad interessarsi, riaprendo il dibattito e il confronto.
Dacché il mondo dell’economia politica, – sempre più astratto e algebrico come un modello d’arabeschi (ricamato con i calcoli della probabilità della matematica-finanziaria “creativa”), – ha abbracciato l’immateriale e i linguaggi come forza espropriabile e sfruttabile (non necessariamente alla vecchia maniera: l’odierna formula del creativo individualistico prosumer, a variabile flessibile e precaria, è la nuova edizione del lavoro operaio di massa soggetto al profitto privato), la riflessione teorico-pratica della filosofia politica ha riaperto il suo cantiere. E il suo fronte, solo per qualche esempio fra i tanti aperti e sfaccettati (dentro e fuori paese), è lungo gli itinerari percorsi da: J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra- Contingenza, egemonia, universalità (prefazione di Laura Bazzicalupo, 2010); Politica ed immaginazione: l’intreccio e il paradosso (Chiara Bottici, Laura Bazzicalupo, María Pía Lara, Mario Pezzella, Meili Steele, Nicoletta Salomon), in “Iride”, XXIII, n. 59, aprile 2010); Jürgen Habermas, L’Occidente diviso, 2007; Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo Stato-Nazione (a cura e traduzione di Ambra Pirri), 2009. Nella stessa direzione, ma con taglio diverso, per esempio, ci sembra si muovo Franco Cassano, Tre modi di vedere il Sud, 2009, e Luciano Canfora, La democrazia – Storia di un’ideologia, 2008.
Le rivoluzioni si presentano con modalità diverse, come le “macchine da guerra” cambiano con tecnologia.
Sin dal 1848 e 1871 (in Francia), e fino al crollo del “muro di Berlino” del 1989, i fatti ed gli esiti, infatti, parlano senza incertezze sui/dei fallimenti di tali soggetti tradizionali e delle rispettive “mosche cocchiere”. Che oggi i processi di aggregazione, prassi e pratiche trasformatrici (di tendenza e controtendenza) abbiano sorgenti di diversa socialità e composizione, lo testimonia quello che sta succedendo nei paesi arabi e in Africa; che i protagonisti attivi si trovino dunque tra le fila dei meno attesi e improbabili non suscita più scandalo alcuno.
Non c’è da aspettare nessun messia liberatore o carismatico fantoccio capitalista e corruttore, che fa perdere dignità persino alle parole e alla lingua che lo alleva.
Contro il modello capitalistico e del mercato che “è incompatibile con la democrazia…la vita” (13), occorre ripercorre l’utopia del “principio di speranza” (E. Bloch), l’universalismo della ‘differenza’ quale egemonia culturale autenticamente “comunista”, e dal basso; parimenti non bisogna rimuovere l’attenzione dalla ricerca di un modello alternativo al capitalismo, né tanto meno abbandonare il terreno delle lotte materiali (anche del “Disoccupato disossato”, come recita il testo poetico di Natalia Paci raccolto nel volume “Calpestare l’oblio”, p. 113), e partendo, perché no, pure dalla poesia.
All’interrogativo “E se ripartissimo dalla poesia?” posto da Daniele Nalbone (“Liberazione”, 30 gennaio 2011), Davide Nota (poeta e ideatore con Fabio Orecchini e Valerio Cuccaroni di “Calpestare l’oblio”), infatti, risponde: “siamo un movimento dal basso – vogliamo lo sciopero della cultura”. Ci siamo “messi in movimento, un anno e mezzo fa, per cambiare le cose […] E questo può avvenire solo con l’unità, concreta, del mondo della cultura con la società civile” e aggredendo “ogni ambito della cultura della società italiana” nella forma di separazione: “Come mai gli studenti in rivolta non condividono la rivolta dei poeti e i poeti ignorano i contenuti delle assemblee degli atenei? Per quale motivo il mondo del giornalismo non ha a cuore la sorte degli scrittori esiliati dalla società italiana e viceversa? Perché le voci dei lavoratori precari dell’istruzione non si intrecciano con quelle armonie dei nuovi musicisti o dei nuovi intellettuali costretti alla fuga?”.
Così se la vita della poesia è quella storia che siamo/facciamo (la “storia siamo noi” canta una canzone), e che non sempre va come vogliamo (K. Marx), in una con “Un Piccolo Miracolo Laico” di Luigi-Alberto Sanchi – una delle noti che, come quella successiva di Valerio Cuccaroni, accompagna “Calpestare l’oblio” – possiamo e dobbiamo condividere che il senso della poesia, in Italia, “dapprima espressione geografica, poi Stato unitario nel suo farsi e, ora, in pericolo di federalismo”, non cessi “di accompagnare, plasmare e riflettere il movimento politico del Paese”. Così, crediamo pure, certamente, non abbandoni il cammino dell’“impegno” open source co-operativo.
Nonostante la non-linearità del tragitto, proprio ora che il tessuto sociale del paese (e lo stesso potere sovrano ‘repubblicano’) lo si gioca liberisticamente sui titoli del mercato e della borsa privati, ad opera di un manipolo di sfasciacarrozze al Governo del Paese, e collaborazionisti dell’impero del “Capitale” e del profitto de socializzante, occorre scavare insieme. Ribellarsi è giusto. Tutti insieme ancora meglio. Perché quando si arriva al fondo, c’è quest’ultimo che deve essere scavato. E i poeti possono farlo usando la poesia della desublimazione parodica.
Le parole, i versi della poesia, come le ideologie, racchiudono programmi d’azione (quella dei nostri poeti vuole insieme democrazia e liberazione).
Si può prendere un modello preso a prestito e proseguire in proprio con l’uso strategico di certa tecnologia retorico-semantica organica; una “organicità” propria alla aseità poetica del testo e allo scopo.
È così, ci sembra, ci/si orienta il testo poetico “Sindelar e lo Stato delle cose” (14) di Fabio Orecchini, raccolto in “Calpestare l’oblio”. La scrittura, infatti, in questo testo del poeta, parodiando il “settimo giorno” del Genesi, inizia con l’innominato – “senza nome” –: il creatore. Il creatore, però, dopo il settimo giorno, non si riposò. Perché “Anche il settimo giorno code” / [un altro governo che cade] / ad attendere il pane il turno per mangiare /”. Un “Leviatano” che provvede mandando giù miracolosamente la manna dal cielo. Semmai cala la mannaia su “Sindelar”.
Lo s-versamento, poi, procede (indichiamo a campionatura) con allegorie – “la neve non è più quella di una volta” –, dissociazioni semantiche variamente connotabili e funzionali – “…uno Stato che non è mai stato” , le “ripetizioni creative” della conduplicatio e commutatio (per dinamicizzare e acuminare il taglio satirico) – come ci sembra di ravvisare –, allorquando il poeta Orecchini infierisce e affonda: “eppure non vedono fuori «non vedono amore» / le macchine rotte rompersi i vetri occultare / il dominio della rimozione il tempo digitale / «me lo avevi promesso, amore» eppure / non vedono i topi attonnellate rintanati nei lager / in coda ad attendere dopo / «non lo avresti più detto» /che un dopo non c’era / […] / «non ti preoccupare amore è tutto /normale» chiudi gli occhi lasciati andare /all’ennesima strage ulteriore”.
Ma il poeta, continuando, dice anche di una decisione protesa alla lotta: amore, “…sono pronto a morire per te e di quello che senti tu ora cosa pensi”.
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NOTE
(1) Francesco Muzzioli, Circenses, ovvero la voce dell’irrilevanza nell’epoca del ridicolo, in Qui si vende storia (di Nevio Gàmbula), Roma, Odradek 2010, p. 85.
(2) Ivi, p. 81.
(3) Gianmario Lucini, Introduzione, in L’impoetico mafioso, Piateda (SO), Edizioni CFR 2010.
(4) Cfr. Renata Morresi, Monologo della TV, in Calpestare l’oblio, Ancona, Collana Argo, Edizione Cattedrale 2010, p. 105.
(5) Andrea Inglese, Ad alcuni poeti & affini nell’Italia dei malori, in Calpestare l’oblio, cit. p. 94.
(6) Lello Voce, A Sandro Bondi, in Calpestare l’oblio, cit. p. 154.
(7) Emanuele Cohen, (strage del 19.07. 1992), in L’impoetico mafioso, Piateda (SO), Edizioni CFR 2010, p. 100 (N.B. La strage che il testo richiama è quella di Via d’Amelio, a Palermo, dove la mafia consumò l’assassinio del giudice Paolo Borsellino).
(8) Tito Truglia, 29 Dicembre, in L’impoetico mafioso, cit., p. 78.
(9) Nadia Cavalera, L’ottica della trota, in L’impoetico mafioso, cit., p. 121.
(10) François Laplatine e Alexis Nouss, Prefazione, in Il pensiero meticcio, Milano, elèthera 2006, p. 8.
(11) Cfr. Gaspare Polizzi, Tensione etico-politica e stile, in Leopardi e Gramsci di fronte alla modernità, Grottaferrata (Rm), avverbi EDIZIONI 2010.
(12) Ivi.
(13) Nichi Vendola, in La sfida di Nichi / Dalla Puglia all’Italia (intervista a cura di Cosimo Rossi), Roma, manifestolibri 2010, p. 166.
(14) Cfr. Calpestare l’oblio, cit. p. 111.
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ALLEGATO: La polifonia della poesia e la “resistenza” della verità. A cura di Davide Nota e Fabio Orecchini, “Calpestare l’oblio”. Recensione di Nino Contiliano (8 novembre 2010)