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A circa metà film, mi sembra, quando siamo in un qualche tipo di limbo vertiginoso/allucinatorio che stupisce e confonde allo stesso tempo e in fondo permette ancora di ben sperare per la riuscita finale di un film così chiacchierato, Sandra Bullock inizia ad abbaiare, dico davvero, sente un cane cinese guaire via radio e, boh, la solitudine spaziale e l’abisso che la circonda le sfasciano del tutto il cervello e si mette a ululare come una scema. A questo punto è chiaro che Gravity non ha più speranze di risollevarsi, e tutto quello che segue, come se non bastasse l’epocale senso di ridicolo involontario creato con questo abominevole spartiacque, è solo una sequenza di dialoghi a caso che pescano a caso da sceneggiature a caso del blockbuster medio-basso tipico di questi ultimi anni.
Ma torniamo pure indietro, parto con calma per provare a spiegare perché Gravity sia un brutto, brutto film, uno dei peggiori esempi possibili del crollo progressivo del cinema occidentale e di come massa e autorialità vengano mischiate privando l’una dell’altra senza una vera, reale capacità di osservare e gestire un prodotto nella sua completezza. Perché sì, Cuaron ha un talento della madonna, già aveva dimostrato tutto con i mega piano sequenza de I figli degli uomini, e in Gravity ci sono scene di una bellezza assurda, momenti di straordinaria tecnica che innesca meravigliosa inventiva, creando paure viscerali nel vagabondaggio siderale (e qui parlo in prima persona, soffro in maniera terribile le vertigini ché anche a salire troppo le scale mi gira la testa), nel vuoto assoluto che imprigiona e soffoca, nel cataclisma di sfighe che colpisce i personaggi, nel devastante senso d’altitudine e di caduta nel vedere la Terra dallo spazio: pochissimi stacchi, lunghi e articolati piano sequenza, improvvisi sprazzi in prima persona che mozzano il fiato, Cuaron cura una regia impressionante che fa proprio della sua personalità e della sua lenta autorialità la sua personale spettacolarizzazione.
Peccato che, oltre a tutto questo, ci siano anche dei personaggi, e che questi personaggi debbano anche parlare – una sceneggiatura evidentemente serviva a tutti i costi per poter vendere un film, il perché l’abbiano scritta lo stesso Cuaron, in compagnia del figlio Jonas, invece di dedicarsi totalmente alla regia rimane un grosso punto di domanda. E allora si torna sempre sui soliti discorsi, sulla potenza visiva che surclassa la narrazione, sulla storia da raccontare che è solo futile orpello nei confronti della maestosa messa in scena, ma per me è proprio impossibile perdonare a un film del genere, una pellicola con un potenziale scioccante che il novanta per cento del cinema mondiale non possiede neanche nei suoi sogni più bagnati, una cazzo di sceneggiatura che non solo fa schifo nel delineare personaggi e dialoghi, ma che tenta anche di ambire a significati e simbolismi che affondano del tutto, ma proprio in fondo, dove non è più possibile tirarlo fuori, il film di Cuaron. Sia il Kowalski di George Clooney, petulante e insopportabile nella sua impossibile sicurezza e nel suo irrealistico sorriso perenne, che la Ryan di Sandra Bullock, che ha un nome maschile perché ehi il papà voleva un maschio, appaiono come pallidi schizzi, personalità appena tratteggiate con una buona dose di rassicurante machismo male espresso da una parte e di traumi da superare dall’altra con dell’ovvia femminilità da ritrovare e riscoprire, niente più che un insieme di cliché del tutto inutili allo scopo generale del film (ehm, ma robe come la bellezza della Terra dallo spazio, il riflesso del sole sul Gange and shit like that). Così come inutili sono le metafore (il feto con il cavo/cordone ombelicale strappa ben più di una risata o, non so, forse è peggio, una faccia del tutto basita), le scene con la bussola persa e la mente a zonzo nell’iperspazio (tutti i cazzo di problemi di Ryan che emergono senza alcun perché, o meglio, senza una sola motivazione valida perché esistano all’interno della storia creata), e il finale insignificante dove dovrebbe risplendere poesia e blablabla artistico.
Come sempre, nella macchina cinematografica 2.0, il come si racconta una storia non è fonte di preoccupazione, l’importante è pompare le immagini, è creare visività, la trama dev’essere non solo accessorio (che comunque ci sta, e la semplicità non è mai, mai elemento negativo) ma del tutto superficiale, pensata tanto per, l’intreccio è semplice, stupida questione da risolvere in un secondo momento, da aggiungere senza troppo pensarci, scritta senza motivazione perché, ehi, bisogna bombardare gli occhi dello spettatore – il bello è che non importa neanche il cosa si racconta, a che serve in fondo? Siamo ovviamente dalle parti di un Pacific Rim per squilibrio folle tra sceneggiatura e regia, ma forse Gravity è addirittura un gradino più in basso per l'abisso che si crea tra queste due componenti, e allora penso a cosa sarebbe potuto essere senza dialoghi, davvero, cosa avrebbe potuto esprimere se i suoi personaggi avessero solo agito, solo pensato, solo sofferto senza per forza tirare in ballo i traumi a stelle e strisce senza i quali il cinema pare crollare, eh, quale cazzo di livello supersayan avrebbe potuto raggiungere Cuaron con il coraggio che comunque già mostra attraverso questa regia sbalorditiva che, però, alla fine è soltanto quello che nelle intenzioni originali ovviamente non vorrebbe essere, e cioè inutile, superficiale accessorio di un film stupido di cui bisognerebbe dimenticarsi subito per non starci troppo male.
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