Gli avvocati di una volta, utilizzavano, nell’ambito dell’insegnamento da trasmettere ai praticanti che frequentavano il loro studio per avviarsi alla nobile professione forense (un tempo era tale; oggi non saprei dire se lo sia ancora;), tutta una serie di proverbi, brocardi, adagi e motti professionali tra i quali ricordo quello che dà il titolo al presente post “Nemico in fuga, ponti d’oro”.
Suggerisco ai giovani avvocati di non sottovalutare nè la portata, nè il significato di questo adagio.
Esso si ispira alla tradizione bellica degli antichi condottieri Romani e, intuitivamente, vuole mettere in evidenza l’opportunità di concedere all’avversario un’agevole via di fuga agli avversari che decidano di ritirarsi dal campo di battaglia, senza più colpo ferire.
Nel cosrso della mia carriera di avvocato ho avuto modo di constatare quanto l’antico brocardo dei nostri bellicosi (e saggi) antenati, si attagli alla professione forense, nell’ipotesi in cui, coloro che abbiano intrapreso un giudizio , decidano di rinunciare agli atti di causa.
Sia che si tratti di attori (nel senso di colui o coloro che abbiano avviato la causa), sia che si tratti di convenuti (e cioè di colui o di coloro che resistono in giudizio contro gli attori), è bene non frapporre troppe difficoltà alla loro rinuncia agli atti, scegliendo, a nostra volta, di rinunciare a qualcosa, pur di chiudere la controversia ( fosse anche in nome di quell’altro adagio che recita “causa conciliata, causa vinta).
I motivi per i quali una parte decide di abbandonare la causa, possono essere molteplici e l’altra parte commetterebbe un madornale errore, a cercare le motivazioni ad essa favorevoli, o peggio ancora, a ritenere che sia stata la paura a suggerire l’abbandono delle posizioni processuali già faticosamente (e costosamente) conquistate .
Ai tanti motivi (stanchezza, paura, amore per la pace, sovraccarico nervoso, mancanza di tempo, eccessiva emotività, ecc.), oggi si aggiunge la durata infinita dei processi che scoraggia non poco i contendenti, non solo a continuare, ma perfino ad intraprendere un processo.
Qualunque sia il motivo che spinge la parte ad abbandonare il processo, l’avvocato avveduto incoraggerà la controparte, senza frapporre troppi ostacoli alla sua dipartita.
Tempo fa intrapresi per un caro amico una causa, la cui fondatezza, seppure ineccepibile da un punto di vista sostanziale (e morale) , presentava non poche difficoltà di riuscita processuale , anche per il fatto che il nostro processo soffre di eccessivo formalismo per cui, spesse volte, l’organo giudicante respinge la domanda a causa della erronea scelta del mezzo processuale (a mero titolo di esempio, se uno agisce in giudizio per rivendicare una proprietà con un’azione impropria, rischia di perdere la causa anche se sia effettivamente il proprietario del bene rivendicato).
Insomma il magistrato, alla prima udienza (che oggi si chiama di trattazione), poichè la mia collega aveva eccepito il difetto di legittimità del mio assistito (la collega sosteneva in pratica che il mio assistito non avesse titolo per agire in giudizio contro il suo cliente, in quel particolare contesto processuale), ci invitò a comporre la controversia in conciliazione dato che le spese legali sarebbero state poste a carico del soccombente.
Il giorno dopo avere convocato in studio il mio amico e dopo avergli spiegato che avremmo potuto intraprendere un’altra causa alla luce di una importante innovazione interpretativa della cassazione sul tema oggetto del contendere, d’intesa con lui, mandai alla collega una proposta conciliativa con cui proponevo di abbandonare la causa con spese compensate e a carico di chi le avesse anticipate.
La collega, senza neppure rispondermi per iscirtto, mi telefonò e, neppure in maniera troppo velata, mi disse che al mio assistito sarebbe convenuto di pagare un milione di lire (per far capire a chi non abbia conosciuto il vecchio, italico conio, convertiamo con una somma di circa mille Euro di oggi) anche perchè il suo cliente aveva speso dei danari per la costituzione in giudizio e poi ci sarebbero state le note conclusionali a pesare sulla condanna alle spese, inoltre io avevo scelto uno strumento processuale improprio e il giuudice aveva parlato per me e non per il suo cliente, e un sacco di chiacchiere, ecc., ecc..
Il mio amico mi disse che se doveva morire, preferiva morire combattendo. Quindi decidemmo di proseguire.
Per farla breve l’abbiamo finita in Cassazione. Il cliente della mia collega ha dovuto pagare le spese di tre gradi del giudizio non solo al mio amico, ma anche a degli ipotetici suoi avvallanti che aveva dovuto e voluto chiamare, nel prosieguo, in giudizio.
Insomma, quel che si dice, una Waterloo vera e propria.
E se avesse applicato il vecchio adagio latino, tutto ciò non sarebbe successo, perchè io, su quei ponti d’oro, ci sarei transitato a galoppo. E non per paura, ma per una scelta processuale legata a qquel particolare momento e che, magari, in un’altra sistuazione e in un altro stato d’animo, non avrei fatto. perchè così è la vita, e così sono i processi (che, in fondo, rispecchiano la vita).
Non posso chiudere questo post senza dire che per quel mio amico io pregai Padre Pio (oggi Santo Padre Pio).
Naturalmente ognuno di noi è libero di credere o meno (ci mancherebbe altro!). Ed è altrettanto ovvio che se tu non ti impegni e non studi la causa, non solo per ciò che sembra ma per quello che rappresenta in realtà, senza trascurare il fatto che gli istituti processuali (come probabilemnte pensava la mia collega di quella causa) non sono dei compartimenti stagno, ma il sistema processuale è fornito di vasi comunicanti che consentono alle parti (e al magistrato giudicante) di pervenire al risultato (il riconoscimento di una ragione comunque fondata sul diritto vivente e sui titoli fatti valere in causa) attraverso l’attivazione di meccanismi processuali che superino le barriere meramente formali frapposte al riconoscimento del diritto vantato in giudizio, ogni preghierà resterà inascoltata (“Aiutati, che Dio t’aiuta!” dice, a proposito, un altro proverbio).
Ho sempre serbato (e serbo tuttora) un sentimento di gratitudine verso il frate di Pietrelcina (oggi santo) perchè io sento dentro di me che Egli, quantomeno, mi ha dato la forza e la speranza di lottare affinché quel mio amico vedesse riconosciuta la sua sostanziale ragione.