La foto è di Jan Moller Hansen, un diplomatico danese che sta girando per Kathmandu alla caccia di sorrisi. Ne ha trovati molti, nel disastro, fino all’ultimo scossone che ha un pò diffuso un senso di impotenza. I geologi americani danno una probabilità del 50%, nei prossimi giorni, di scosse minori (4-5gradi) e di meno dell’1% di grosse botte. Una visione positiva. Tutto finche’ le due masse terrestri dell’ex isola indiana e l’altipiano tibetano finiranno di spingersi. La gente scherza coniando i nuovi nomi di Quakemandu, Shakemandu e così via.
Ma intanto si vive all’aperto, in tende e tendoni piazzate in ogni spazio libero e, pericolosamente anche nei giardini schiacciati fra le abitazioni. Si vendono le verdure per terra come sempre, si friggono le solite micidiali frittelle in banchetti improvvisati, bollono i grandi pentoloni del the. Ma gran parte degli uffici pubblici sono pericolanti, compreso il bianco palazzo del Singh Durbar (sede di diversi ministeri) così come alcune banche e altri importanti uffici commerciali. Come, e in quali condizioni sarà possibile tornare al lavoro, produrre reddito, riparare o rifare la casa. Problemi non da poco che, superata l’emergenza, possono causare gravi tensioni sociali. Sottostante rimane la sfiducia nella classe politica che ha cercato di governare il paese dal 2006. Le voci, diffuse, di spartizione degli aiuti, delle tende a favore di appartenenti ai partiti politici e il futuro utilizzo dei fondi per la ricostruzione sono ulteriori elementi di possibili casini. Il leader maoista Baburam Bhattarai, ha proposto un governo d’unità nazionale, animato da “una grande visione”, forse l’unica soluzione.
Intanto, però, lo stato sembra funzionare. Sono stati riportati gli ultimi feriti da Langtang, la risposta all’ultima scossa è stata efficace, si lavora alacremente per valutare i danni e favorire l’arrivo degli aiuti nei villaggi. Il governo ha attivato con efficacia tutti i social media (specie Twitter) per favorire comunicazioni veloci. Il web è stato d’aiuto per raccogliere le emergenze e coordinare la miriade di piccoli gruppi di volontari che sono stati i protagonisti di questa tragedia, insieme a poliziotti e militari.
Più che andare a parlare e fare programmi negli inutili “cluster” (aree tematiche di teorico intervento) studiati per decenni dall’industria dell’assistenza, come primo fronte dell emergenza ma rimasti sulla carta, la gente si e’ organizzata da sola e questo dovrebbe essere una strada, anche per la futura ricostruzione.
Mentre le grandi ONG, le Nazioni Unite si riuniscono per sfornare bollettini, infografici, comunicati, campagne di raccolta fondi. I club etnici, i piccoli Rotary di paese, le associazioni imprenditoriali, quelle studentesche, piccole ONG locali, i Guthi (parrocchie newari), i monasteri buddhisti, raccolgono fondi, comprano cibo e teloni, affittano camion scassati e corriere e si muovono verso i villaggi. A Kathmandu, i giovani dell’università e dei college cuociono il cibo fra le tende, inventano alloggi di fortuna per gli sfollati. Addirittura le agenzie di trekking, spesso appartenenti a migrati dai distretti di collina più colpiti si danno da fare, magari per aiutare parenti e compaesani, ma permettendo così di raggiungere villaggi di cui gli esperti delle grandi ONG internazionali o delle NU non hanno mai sentito parlare, riuniti nei loro “cluster” nei vari ministeri.