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Moussa Diop si strinse nel giubbotto di finta pelle marrone scuro, con il colletto di finta pelliccia bianca, comprato al mercatino Shangai di via Gramsci. I calzoni erano di cotone spesso, ma sempre per mezza stagione, invece si era alla vigilia di Natale, era freddo, tirava vento, la neve stava appesa al cielo grigio chiaro e davanti a lui si stendevano quasi quindici giorni di nulla.
Moussa aveva trentadue anni e una famiglia a Thiès, in Senegal. Famiglia, insomma…si durava fatica a spiegarne la composizione, lì in Europa.
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A Genova lavorava da un gommista. Il lavoro gli piaceva, la figlia di Lino, il padrone, pure. Però, come raccontarle tutta la storia? Si trattava di una ragazza perbene, ingannarla era impensabile e lui, nel frattempo, si era sposato e aveva due bambini. Non tollerava di stare a tavola con quelle brave persone, tutti i giorni, perché il negozio nelle feste chiudeva e Loredana parlava già di annunciare il fidanzamento ufficiale. Così Moussa aveva inventato di aver preso un lavoro da muratore a Celle, con un compaesano. Lino aveva assunto una strana espressione e Loredana era sbiancata.
A Moussa bruciava il cervello, mentre prendeva il treno per…per dove? I soldi erano sempre contati, così salì senza biglietto. Maryam, sua moglie, era di nuovo incinta, dopo l’ultimo visita, mentre suo padre voleva fargli sposare anche Fatou, una lontana cugina che aveva bisogno di un buon marito per levarsi dalla miseria.
Moussa era gonfio di amarezza. Cosa faceva credere a tutta quella gente che lì, in Italia, ci fosse un pozzo senza fondo? Si paga pegno, ma quelli non se ne davano per inteso. Inshallah, Inshallah.
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Uno sforzo, minimo, e la porta si sarebbe spalancata sull’abisso, e sulla pace che Moussa non trovava da anni. Qualcuno lo afferrò per la vita, due piccole braccia attorno a lui, così alto e grande da poterle ignorare. La vide riflessa in quel lurido vetro, trafitto dalle luci dei lampioni, nel buio che precipitava sul suo dolore. “Tutto si aggiusterà” sussurrò Loredana “basta restare vivi”.