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Settimana scorsa la svolta, grazie a una soffiata facciamo irruzione nel suo nascondiglio nella Grande Mela, un seminterrato sulla 52esima dove rinveniamo un vero e proprio arsenale.
Oltre alle armi un'agendina, un cellulare e un nome falso ci consegnano finalmente una pista nella quale ci buttiamo a capofitto.
E così gli facciamo sentire il fiato sul collo, da Pittsburgh a Cleveland inseguendo una strisciata di carta di credito, fino a Syracuse agganciati a una cellula telefonica, piuttosto che a Boston dove spunta fuori il noleggio di una Chevrolet.
Ad ogni buon conto eccomi qua, a Portland, nel Maine, asserragliato in auto al freddo e pervaso da una vaga sensazione d'inutilità, sui vetri appannati ho disegnato giusto due tondi, un improbabile binocolo per tenere d'occhio la palazzina sotto alla quale il coglione ha parcheggiato la sua vettura avis marrone, che giusto a noleggio ti puoi pigliare un'auto marrone.
La neve fa il suo sporco lavoro: stempera la vista sfumando al bianco e ficca giù i suoni di quell'alba dentro a un imbuto di silenzio assordante.
Il sole fa capolino da dietro i palazzoni di un'impopolare edilizia popolare e li rende quasi appetibili all'uso avvolti come sono nell'atmosfera rossastra del primo mattino. Va così che ti salta su un'insana voglia di abitarli quei palazzoni, di svegliarti in una stanza straliciata dal sole dove sorbirci un tè al latte coi biscottini di pastafrolla, sempreché ci sia ancora un folle disposto a venire ad abitare nel Maine.
Butto un po' giù il seggiolino nella ricerca plastica di un riposo che sarebbe meritato quant'è vero iddìo. Nell'attesa, e anche per non cedere alle lusinghe di Morfeo, frugo nello sportellino sotto al cruscotto, ne scappa fuori una vecchia lista della spesa e una manciata di scontrini accartocciati in una squallida testimonianza d'acquisto di hamburger, pasticche, ancora hamburger, diet coke, libri del cazzo, e poi sempre hamburger, hamburger a palate.
Il panorama mozzafiato viene disturbato, deturpato e disintegrato dal lento incedere del camion della nettezza che, nonostante la stazza e i meccanismi in funzione, pare ancora riuscire a muoversi in una bolla di sapone silenziata. O forse sono soltanto io, ormai bollito, in un gorgo invelenito e castrante da dove diventa epocale anche solo percepire un suono o mettere a fuoco un portone d'ingresso. Passa anche lei, o almeno credo di vederla, lo zaino portato su una spalla sola, un fiume di capelli dorati e lisci, lisci all'inverosimile, addormentati su un loden blu canaglia, non sembra camminare, piuttosto è il mondo che si muove sotto ai suoi piedi portandola in ogni buco di posto voglia andare. Me ne innamoro perdutamente e già metto in cantiere il mio terzo matrimonio pregustando il sottile piacere del contatto con la sua liscia pelle di pesca e la sublime visione dell'albicocca, emozionato e confuso come uno scrittore alla presentazione del suo romanzo d'esordio.
Passo una bella fetta di tempo così, a guardare il tetto dell'auto. Non me la sento di fare nulla. L'unica soluzione è rimanersene lì a guardare in alto. Non che lassù ci sia nulla di interessante. I tettucci delle macchine non sono costruiti per intrattenere le persone.
E alla fine dei salmi mi tiro su, giusto il tempo per rendermi conto che il cazzo d'insonorizzato Maine s'è inghiottito la fottuta Chevrolet marrone.
Merda! _________________________________________________________________ Questo testo partecipa all'Eds fuffa beata mai bandito da La donna Camèl.
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