Pubblicato da giovanniag su gennaio 23, 2012
Prefazione del libro di Augusto Benemeglio
1.Tornando a casa per Natale
“Tornando a casa per Natale” (è il titolo di un film di Bent Hamer), capita che trovi un regalo inatteso sotto l’albero: un libro, un romanzo di Fabrizio Centofanti, Nessuno è più importante di te, ancora allo stato “cartaceo”, insomma un’anteprima assoluta (se escludiamo il Blog, dove però non si ha mai una visione d’insieme), che subito ti coinvolge. Conosci lo scrittore e la sua straordinaria capacità di essere prodigiosamente plastico nel mettere in prospettiva, in scena i ricordi, quasi di sbalzarli come in un racconto stereoscopico; ma conosci anche il sacerdote, capace di riunire e mettere in scena gli uomini e stimolare, far emergere i loro lati migliori – un po’ come fa il regista finlandese del film in questione, ma qui la regia viene dall’Alto –, parliamo dei singoli uomini e delle singole donne che s’incontrano tra loro, si sentono vicini, provano simpatia gli uni per gli altri, e questo sentimento permane, li pervade al di là di ogni tentativo di separarli e isolarli nelle loro (talora profonde) solitudini. Non tutti gli uomini e le donne che si incontrano nella sua chiesa-casa-ventre-rifugio (“la chiesa ti partorisce una seconda volta; i canti sono grida, le doglie della donna, i vagiti del bambino, il tunnel buio che bisogna attraversare per riconoscere la luce” – pag.36) sono dei vinti e degli emarginati, ma sono pur sempre, “ciottoli umani levigati dalla fede, schegge impazzite di speranza…”, esposti alla vita, indifesi nella loro nuda singolarità, e tutti hanno bisogno della sua tenerezza di poeta, della sua guida di pastore, del suo telescopio interiore che sa scorgere nel nero infinito le stelle più luminose. (“Vi sento, sento le vostre voci, il fiume si è fermato, no, ancora tremano, te ne accorgi se guardi attentamente, ancora tremano le stelle”).
“Il grande messale era spalancato,/dondolavano i nastri di seta/ smeraldo,porpora,bianco acquoso./ Assistevamo, confessavamo, ricevevamo,adoravamo…”. E’ la memoria di un orizzonte, quella evocata dal poeta irlandese Seamus Heaney, di un orizzonte per molti di noi remoto, che ha fatto parte della nostra infanzia e adolescenza, e che sembrava (per quel che mi riguarda) per sempre smarrito. Ora, grazie a don Fabrizio, questa storia si ripete, a Natale e in ogni festa consacrata nella chiesa di San Carlo da Sezze, che richiama folle oceaniche. E capita anche che, tornando a casa dopo una fredda notte di Natale, tu sia ricolmo di quei canti, di quei pensieri evangelici, di quegli odori d’incenso e desideri di pace e semplicità di cuore (“Come sarebbe il mondo se ogni vescovo gridasse le parole del vangelo, se abbattesse la cortina delle diplomazie e se dicesse pane al pane e vino al vino?” -pag.26), ma quando poi questa storia di immagini, – atmosfere,volti, inni , strette di mano e ostie consacrate – diventa pagina di scrittura , ecco che tutto assume un proprio volto, una propria fisionomia, un’autonomia, una storia di personaggi che sfuggono anche al suo autore: ecco il racconto diramarsi in mille direzioni, vicoli, strade, crocicchi, pianure, colline, valli, situazioni e vicende che nei telai del linguaggio, nella memoria e nelle sue dimore, si moltiplicano in ragioni di piazze catacombe, coltelli, letti, rasoi, colline morbide Sotto il Monte e valli bergamasche, e poi Versailles, Atlanta, Dallas , Betelgeuse, Kenegdo e la canzone di Prevert, giardini di fiamma, muri d’ombra e di fuoco, il Lorraine Motel e il Cupolone di San Pietro, vite parallele, zanne d’avorio e canne di fucili, germinazioni di incubi, spazzini magici alla Mary Poppins, cluster bombs e cerchi di silenzio, Rosa Parks e Earl Ray, odori di stalla e foreste di alberi di vetri… Tutto si amplia a dismisura, si fa storia che rivisita i grandi miti del nostro tempo, come Giovanni XXIII, J.F. Kennedy, Martin Luther King, diventa storia delle storie, di incontri e scontri, di ideali e violenza, di utopia, martirio e sangue, e spazia nel tempio misterioso e miracoloso della memoria dell’uomo, e ti scorre dentro come un lungo nastro di film in sequenza, un luminoso bianco e nero in cui ritrovi il tuo passato, il tuo presente, e – forse – il tuo futuro.
Insomma, quando Fabrizio si mette a scrivere, questo rito magico e stregonesco che ogni notte compie nella camera alchemica del suono (sì, la scrittura ha anche un suo suono interno, un colore, un umidore), con la sua proverbiale memoria, precisa come un dettato o una lama affilata, con il giusto tono e timbro, la giusta luce, è come se componesse un’opera musicale, una sinfonia natalizia. Un libro come questo – bello, intenso, autentico, universale, con il gusto della sfida, dell’amore per la musica e per l’arte, pieno di intelligenza del cuore – va considerato tale .
È un continuo rifare interiore che spiega tutta l’estetica del suo eseguire colto, perennemente insoddisfatto di sé, immerso in una caldaia di umanità fumante, con il sentimento del tempo, i retroterra dei fallimenti e delle frustrazioni, le stimmate della sua passione. In certi capitoli ti puoi immaginare l’autore come regista metafisico, con la telecamera ben salda nelle mani, appollaiato sopra il mondo, da qualche parte, in un cielo che d’improvviso si fa luminoso, e non perché ci sia la stella cometa, ma tutta la luce, lo splendore che fanno ogni donna e ogni uomo quando proiettano le loro anime. Lui ci vede così, quando è in stato di grazia. E allora noi diciamo Fabrizio Santo subito, come per quegli scrittori “cult” tipo David Foster Wallace e Roberto Bolaño, coi loro libri monstre “Infinite Jest” e “2666” , o “Stella Distante” in cui cantano una gioia impareggiabile e una certa disperazione umana, che è di tutti e che anche il Nostro sa leggere, con la sua intelligenza apertissima e la dolcezza che è nel suo cuore , pur dilaniato da ferite, angosce e tragedie che vengono consumate ogni giorno dall’uomo sull’uomo. E allora capisci che – come spesso ti dice dall’ambone – per trovare la voce di Dio hai bisogno di un volto, fosse anche “la violenza di un volto”, hai bisogno di incontrare “l’altro”, come accade allo stesso mitico Martin Luther King: “La lunghezza è rendersi conto che nessuno è più importante di te, come mia madre ripeteva, che hai tutto ciò che serve per gestire la vita, per creare il tuo destino… Ma la lunghezza non basta: ci vuole la larghezza, l’uscita da sé per incontrare l’altro, perché una vita chiusa in se stessa è una prigione, magari dorata, dove prima o poi ti senti soffocare. Non potevi immaginare che a Boston ti avrebbe aspettato quello sguardo. (pag.53) ”
2.Le parole della vita.
Oggi è forte il rischio di lasciarsi andare nel bla-bla delle insignificanze verbali, delle trasmissioni televisive che svuotano di ogni significato il linguaggio, che riducono la vita a un barnum dell’apparire e della volgarità, o di precipitare in un vortice di parole di assordante rumore, che semina solo angoscia e smarrimento. “Bisogna uscire dall’insignificanza, – scrive un frequentatore (Fides) del Blog la poesia e lo spirito – dotare se stessi e il mondo di senso, vivere e non essere vissuti, scegliere e non lasciarsi trascinare, dare, finalmente, al verbo amare il suo giusto valore logico-formale: transitivo attivo… senza che sia vuota forma, ma gesto, sguardo, tocco, carezza, parola-che-fa rinascere sempre a nuova vita”. Ma le parole della vita non sono molte, anzi sono poche, sono rare, e quanto più si scava nel tempo, tanto più si perdono. Rimane l’essenziale, il segreto e la potenza della parola iniziale, che spesso l’uomo dimentica: “l’altro”. L’incontro con l’altro, la persona che si presenta con i suoi tratti unici e irripetibili, belli o brutti che siano, deturpati dalla violenza o rasserenati dalla felicità, diventa fondamentale. È la riscoperta di una coscienza che nella vita ciascuno di noi – come diceva Danilo Dolci – “ è – può, deve essere – ostia agli altri . Mangiare è un dramma: cosmico. Accetto di mangiare per poter farmi mangiare”. Con l’altro si stabilisce quella naturale quanto concretissima relazione dell’io con un tu. Senza l’altro non vai da nessuna parte, non compi nessun passo nella direzione del senso dell’essere. E non si tratta di durata di tempo, ma di intensità di sguardo. E, come diceva Levinas, la dinamica umana diventa paradigma della dialettica divina. Anche quest’ultimo romanzo di Fabrizio è in fondo un romanzo sull’altro, che può essere Kennedy, King o Papa Roncalli, ma può anche avere un volto anonimo, un altro che non ricorderai mai più per tutta la tua vita, ma che esiste e ti ha salvato quando non avevi più speranze (“Qualcuno mi aiutò, angeli che passano per la strada e non fai in tempo a domandargli il nome”-).
La poesia di Fabrizio non nasce dall’amore per le parole, ma dall’amore per gli uomini. Lui è riuscito, nella terra di nessuno esistente tra la vita e la letteratura (la vita o la si vive, o la si scrive, diceva Pirandello: io non l’ho vissuta, l’ho soltanto scritta), a ridurre le distanze. A saper conciliare la scrittura con la sua missione di pastore d’anime, equilibrio sempre delicatissimo, costantemente in bilico, meccanismo ad orologeria, che ha sempre un moto circolare, come, ad esempio, nelle descrizioni di Angelo Roncalli, rispettivamente della “chiesa” e della “piazza”, altre due parole essenziali: “Vidi la chiesa che ricorda San Miniato, il grigio e il bianco che si alternano per dare agli occhi la sensazione di riposo. Le strade sono piene di macerie, verrebbe voglia di guardare oltre gli scuri, per sapere se qualcuno stia spiando le mosse del presente, se sia possibile concepirsi ancora in un futuro… La Piazza è il cuore del mondo, in cui si aggirano ombre timorose che hanno perso la via e non ricordano più dove si entri né dove si vada, che scorgono macerie dappertutto e non sanno chi abbia provocato tutto questo.” (pag.33). E poi ci sono le macerie, che “un ragazzino trascina in una carriola”, che non rappresentano solo il passato, la guerra, la devastazione, la nudità, i detriti della nostra anima, ma il pericolo costante reale concreto che tutto ciò possa tornare da un momento all’altro, perché – purtroppo – tutto ciò si annida dentro di noi. E “La seconda mezzanotte” ipotizzata da Antonio Scurati nel suo discusso romanzo di fantascienza sociologica, potrebbe essere molto più vicina alla realtà, così come il programma di distruzione della sua Venezia, a colpi di pennarello rosso sangue e, con essa, di tutto il mondo dell’arte. Altro che nuovo umanesimo, nuovo rinascimento! Non a caso qualche mese fa si è realizzata, nella galleria Daniel Bla, a Londra, una mostra sulla terribile bellezza della bombe, “A-Bomb – Pictures of disaster”. Cento fotografie di esplosioni atomiche immortalate dai reporter tra il 1945 e il 1970. Il fungo dell’esplosione di Hiroshima e Nagasaki, l’impressionante grandezza di quei mirabili e terrificanti diciotto chilometri di ascesa alle vette celesti, una spaventosa tempesta di luce che equivaleva a molti soli, una biblica nuvola di fuoco fumo e polvere multicolore, un colpo di “genio” che per la prima volta poneva la potenza dell’uomo a livelli della Creazione: “Lanciate bombe e minacciate i nostri figli e noi vi ameremo ancora. La vita è tutta qui: tra i rifiuti sotto il pino e le arcate della chiesa-donna che raccoglie i frammenti di disperazione e ne ricava una vetrata:…Solo di una cosa potete essere sicuri: che vinceremo con la nostra capacità di soffrire: l’amore è il potere più duraturo che vi sia al mondo” (pagg. 36-37) ”
Il libro di Centofanti ci fa riflettere anche su queste cose . E ci chiediamo: anche questa mostra di bombe atomiche è una forma d’arte (?)…
3.L’arte.
L’arte – diceva Oscar Wilde – continua ad essere la ballata dei segreti e della solitudine, che non fa l’uomo migliore, ma solo più profondo, e comunque servo di scena, servo della propria immaginazione, inutile assistente della propria vanità. L’arte non è verità, ma solo profondità, unità interiore di un oggetto con se stesso. Una volta i poeti si nutrivano del proprio sangue, delle proprie lacrime, si cibavano della propria disperazione; ora, invece, dice Miuccia Prada, l’arte è l’unica possibile via di scampo dalla volgarità imperante. Solo l’arte e la bellezza ci possono salvare, perché “l’arte è la via per ritrovare il cuore” , il motore per far diventare realtà i sogni di libertà (“Io accarezzo un sogno… che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”) ripete Fabrizio Centofanti che , con questo romanzo, ribadisce di voler essere voce e testimone della speranza, soprattutto degli ultimi, di uomini misconosciuti, i cui fatti di cronaca spesso trovi nel fondo dei cassonetti della spazzatura: “…sono vittime predestinate della società, rotelle di un ingranaggio spaventoso…che lottano per i medesimi valori, per gli stessi cambiamenti della storia … E tuttavia “ci sono alte barriere che ci dividono”. E pure anch’essi , gli sconosciuti, i non nominati , la cui fede nessuno conobbe tranne Dio, fanno parte della Chiesa, parola del cardinale Ratzinger, che conclude:“Di essa fanno parte tutti gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando, verso Cristo” Ma “se la chiesa non diventa la chiesa del grembiule di don Tonino Bello, e “non accetta di farsi rotella dell’ingranaggio anch’essa, di sperimentare cosa sia lo sfruttamento, come può parlare a questa gente?
(pag. 55)
4.Cristiano scrittore
Dagli abissi della depressione, angoscia, paura, terrore del futuro in cui siamo precipitati, in un paese allo sbando, di escort e deputati al saldo invernale, di giovani umiliati, di braccia sfruttate, di cervelli in fuga , di camaleonti della furbizia sempre più scontata, insomma da un punto di non ritorno, ecco emergere Fabrizio Centofanti, questo cristiano scrittore, come lo ha definito Tiziano Scarpa, che non ha la figura caravaggesca di un Saviano, e non scrive “Gomorra”, o” La pelle”, o “SOS , si salvi chi può”, ma che va sempre più affermandosi con potenza di dettato, intensità, coerenza e limpida scrittura, ricerca della verità senza far sconti a nessuno, in primis a se stesso, un po’ alla Turoldo (“Siamo sempre razzisti/ nazisti/ schiavisti /fedeli infedeli/ un oceano di gemiti/ che nessuno ascolta più) . È uno che continua a scrivere libri coraggiosi in cui si è in trincea, si lotta per la libertà, e per la dignità umana, per ridare speranza a chi soffre, ai diseredati, agli ultimi, ai barboni, agli ubriaconi e agli zingari, alle pietre di scarto; continua la sua sofferta e attenta meditazione sul mondo e sulle sue vicende. È uno che sta al gancio della scrittura, cui si attacca l’anello della catena della vita (l’atto stesso dello scrivere è una sfida perenne con la morte), e conosce l’enigma, il mistero della sua esistenza nel mondo; è uno che scrive ogni giorno e si mette costantemente in discussione, che cerca il confronto, la condivisione, ma anche di capire la diversità, la frattura, il mutamento, il fluttuare del pensiero, sempre con assunzione di responsabilità in un mondo che va, al contrario,s ottraendosi sempre più a ogni determinazione di responsabilità. Fabrizio fa opinione, è una sorta di piazza delle rivelazioni, lo troviamo al calare delle tenebre, e ci dice cose che rischiarano il cuore, cose semplici misteriose e vere, reali ed eterne, che parlano della vita, della morte, dell’amore, della speranza. Ci dice che noi non siamo mai veramente cominciati. E mai finiremo. Poeta oratoriale, uomo di profondo e sofferto misticismo, continua a perseguire un sogno ad occhi aperti di costante riconciliazione, un bisogno ossessivo intorno alla domenica di Dio, vagheggiando la ritrovata armonia, la pace, la ricongiunzione degli estremi, la via verso la luce e la libertà, che passa nell’incunabolo di memorie agghiaccianti, come i tamburi lontani dell’assassinio di Martin Luther King, la violenza, le stragi, i razzismi, l’indifferenza, le umiliazioni, le vie crucis, le piccolezze, i frammenti e le fragilità che sollevano alla pura gioia del mondo di Dio, o di un qualcosa che ci richiama irresistibilmente a Dio, e lo fa nello splendore, nella sua funambolica struttura multinarrativa, in una sorta di meccanismo ad orologeria di indicibile precisione, uno straordinario concertato polifonico che lievita attorno a grandi personaggi, filtrati, intrecciati a vari livelli, come accade, di fatto, nella vita, dove non c’è mai una linea sola, ma le immagini e i pensieri si accavallano, ricevendo senso gli uni dagli altri, coinvolgendo chi scrive e chi legge fino al punto da metterci dentro la propria vita. Questo, in un certo senso, violenta le rispettive biografie, ma è l’unico modo per non farne qualcosa di esterno, e mettere invece in discussione i valori in base ai quali si vive, per decidere, insomma, di cambiare mentalità. “La letteratura, infatti – scrive Fabrizio – rovescia il mondo, anche se il mondo se ne accorge sempre dopo”. È vero, in letteratura nulla è casuale, c’è sempre un disegno dietro un progetto, un romanzo, che governa i destini. Anche se – osserva una lettrice del Blog – non si legge la parola FINE.
“Quel che manca è la chiusura circolare del pensiero di chi narra confondendo la sua storia con quella di due grandi uomini, per dare un’evoluzione anche solo immaginaria nel mondo reale ma sicuramente viva e vera nel vivere semplice di quel che è l’uomo di tutti i giorni, un uomo particolare che si confonde in questa storia e si rivela così com’è, senza manie di grandezza o di celebrità, ma solo perché vive la storia non dall’alto di un gradino ma forse solo dal lato oscuro della luna”.
C’è, in effetti, in quest’opera, la trasfigurazione del ricordo, la dilatazione mitica e insieme teneramente poetica del piccolo, del quotidiano, del vissuto, che è emblematicamente riassunto nello stesso titolo del romanzo: “Nessuno è più importante di te”. Sono le parole che la madre del piccolo Martin dice al figlio, ma anche le parole che ogni madre dice al proprio figlio che ama.
Forse la parola fine non c’è perché – come diceva Calvino – è il lettore il vero eroe del romanzo, è lui che dovrà tessere la vera trama del libro. “Quando una storia arriva alla fine, ciò che conta è il fine della stessa – dice lo stesso autore – “ che si può imprimere nella mente solo se hai letto anche le note a piè di pagina, o a margine; allora non c’è’ tristezza per qualcosa che finisce, perché la circolarità dello scrivere ci ricorda il cerchio della vita, e non sai mai dove inizia e dove finisce, ma sai che, ovunque accada, lì c è il fine, in due punti che coincidono come l’alfa e l’omega”
Per concludere, potremmo definire questo libro, scritto in uno stile agile, rapido, musicale, oserei dire un po’ alla Baricco, – ma con maggior potenza e intensità di scrittura , – una lunga preghiera che dimentica venti secoli di sermoni, il che vale a dire che è senza nessuna retorica, perché ritrova l’ispirazione nella sofferenza, nel racconto profondo, nel volto degli innocenti, di coloro che vennero per cambiare il mondo e farlo più giusto, ma anche di tutti i misconosciuti della terra, delle pietre di scarto che non vennero per cambiare, ma per morire, ignorati da tutti. Sono questi, coloro che più di tutti vanno considerati i veri martiri della libertà. E nessuno è più importante di loro.
Roma, 27 dicembre 2011 Augusto Benemeglio