di Maria Serra e Giuseppe Dentice
Le elezioni in un Paese mediorientale non sono mai scontate, in Israele tantomeno. Non lo sono state neppure quelle del 22 gennaio, benché il risultato abbia grosso modo coinciso con sondaggi ed exit poll. Per lo meno per quanto riguarda il Premier Benjamin Netanyahu e i partiti di destra. Tutti (o quasi) convinti che questa tornata avrebbe visto una decisiva svolta a destra per il Paese, si è infatti assistito infine ad un’inattesa composizione della Knesset.
In attesa delle percentuali ufficiali diramate dalla Commissione elettorale israeliana, la lista Likud-Beiteinu della coppia Netanyahu-Lieberman avrebbe ottenuto 31 seggi (lontano quindi dai 42 complessivi ottenuti nel 2009 quando correvano separati), mentre HaBayit HaYehudi di Naftali Bennet passerebbe da 3 a ben 11 scranni. La destra religiosa di Shas e dello United Torah Judaism si accaparrerebbero rispettivamente 11 e 7 seggi, praticamente quanti nella tornata precedente (11 e 5). In linea con l’ultimo Parlamento anche il blocco arabo formato da United Arab List, Hadash e Balad, che otterrebbero 5, 4 e 3 seggi (rispetto ai precedenti 4, 4 e 3). Le novità più significative riguardano invece il blocco centrista, nel bene e nel male: eccetto il Labour Party di Shally Yachimovich, che salirebbe da 13 a 15 seggi, e a parte Meretz che passerebbe da 3 a 6 seggi, l’attenzione è tutta per Yesh Atid: di freschissima fondazione (solo un anno fa), la formazione del commentatore televisivo Yair Lapid acquisterebbe in un sol colpo 19 seggi, configurandosi come la seconda forza del Paese, nonché della futura coalizione di governo. A tale successo, tuttavia, fa da contraltare il crollo di Kadima di Shaul Mofaz, dai 28 seggi del 2009 agli appena 2: un risultato su cui hanno pesato le varie fuoriuscite, tra cui quella di Tzipi Livni di Hatnuah, che otterrebbe 6 seggi.
Un’ultima osservazione di carattere numerico: l’affluenza alle urne è stata del 66,6%, la partecipazione più alta negli ultimi 10 anni (65,2% nel 2009, 63,2% nel 2006). Un dato che non ha evidentemente premiato Netanyahu e che rivelerebbe, come titolato da alcuni, la “voglia degli Israeliani di vivere in un Paese normale”.
Una vittoria mutilata… annunciata – Che Benjamin Netanyahu, dunque, ottenesse il suo terzo mandato era cosa scontata, non foss’altro che durante la campagna elettorale si è svolta una guerra nella Striscia di Gaza – a cui è seguito riconoscimento della Palestina all’ONU – che ha inevitabilmente spostato l’ago del dibattito su temi cari alla destra, soprattutto quella nazionalista-oltranzista dai toni non politicamente corretti, a cui la frammentata sinistra (laburisti, laici, pro-Palestinesi) non sembravano essere riuscite a competere. Ma nelle ultime settimane i sondaggi hanno visto il consenso nei confronti del gruppo del Premier assottigliarsi, paventando 31/32 seggi. Voti che in prima istanza sarebbero stati appunto “acchiappati” dai partiti di destra nazional-religiosi, più inclini nel trasformare in fatti la retorica nei confronti dell’Iran, propensi ad una politica ancor più intransigente nei confronti della questione palestinese, meno disponibili ad incrinare – come invece ha fatto Netanyahu – i rapporti con gli Stati Uniti. Ma l’ascesa, soprattutto, del Habayit Hayehudi (“Focolare ebraico”) dell’ex generale Naftali Bennett, oltre che la progressiva affermazione dello Shas (“Le guardie della Torah”) del Rabbino Ovadia Yosef, non è stata in effetti l’unica causa del ridimensionamento del “falco” di Tel Aviv. L’elettorato di centro-destra, anche per “ragioni demografiche” spostato verso posizioni più estreme, non deve infatti aver gradito l’unione del partito del Likud con quello degli immigrati russi dell’Yisrael Beiteinu guidato dal Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman: una lista creata ad arte per ottenere più seggi (46 nelle migliori delle aspettative), ma i cui esponenti (al di là dei dissensi interni) hanno lasciato il passo a vaghe promesse e populismi. Afferma a tal proposito l’editorialista di Haaretz e Foreign Policy, Gideon Levy: “Begin era un revisionista, Rabin un sionista, Peres un pacifista, Netanyahu e Barak vogliono un posto nei libri di storia. Ma cosa vuole Lieberman?”
Ma c’è di più. In effetti, al di là del continuo refrain sulla minaccia iraniana, sulla sicurezza dei confini israeliani – questione che ha peraltro indotto all’innalzamento in tempi assai brevi di una recinzione anche sulle Alture del Golan, confine siriano relativamente stabile da anni nonostante la crisi di Damasco e che per molti non giustificherebbe una spesa simile – e, più in generale, sulla politica estera, è stata l’economia a decidere le sorti di questa tornata: rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità, aumento dell’inflazione, incremento dell’Iva, aumento dei prezzi su benzina, sigarette e alcolici (a cui hanno però fatto da contraltare gli incrementi nel settore della Difesa), necessità di rivedere i proventi derivanti dalle nuove forniture di gas dovute alle recenti scoperte, investimenti nell’educazione, nella sanità e nello sviluppo degli arabi israeliani (che costituiscono ben il 20% della popolazione totale). Sono state forse queste considerazioni, infine, a decretare – forse nemmeno poi tanto inaspettatamente come lasciava intravedere Gil Hoffman sul Jerusalem Post – il successo del partito centrista Yesh Atid (“C’è un futuro”) di Yair Lapid – dato nei sondaggi dei primi di gennaio ad 11 seggi –, decisamente più focalizzato sulle istanze della middle class e sicuramente più innovativo dal punto di vista della comunicazione. È dunque con lui, innanzitutto, che Netanyahu dovrà trovare un punto di incontro per formare il nuovo esecutivo.
“C’è un futuro”… nuovo - La vera sorpresa di queste elezioni israeliane è stata dunque Yesh Atid, formazione politica che con i suoi 19 seggi si afferma come la seconda forza del Paese. Fondato nel gennaio 2012 da Yair Lapid, giornalista e anchorman televisivo di Channel 2, Yesh Atid é un partito centrista con una piattaforma politica incentrata sull’economia e sulle questioni sociali: alla riforma delle legge elettorale, del sistema dei Ministeri e del sistema scolastico, si aggiungono l’avvio di un piano di finanziamenti per le piccole imprese e un progetto di edilizia pubblica per i giovani ed i veterani dell’esercito. Proprio la riforma del servizio militare, collegata all’altrettanto tema caro dell’abolizione dei privilegi delle istituzioni religiose, è stato uno dei suoi core-topic: aprire l’esercito ai giovani haredim (per lo più impegnati a studiare nelle yeshivot, i centri studi della Torah e del Talmud o, ancora, che nel 60% dei casi sceglie la disoccupazione) permetterebbe di risparmiare 1,5 miliardi di shekel (oltre 300 milioni di euro) e immettere maggior forza lavoro.
La pragmaticità del suo programma ha così catturato i voti di protesta provenienti dalla classe media, dai giovani e dai laici. A questo punto di forza, tuttavia, corrisponde anche una debolezza: più deciso sul fronte dei problemi interni, Lapid è parso, secondo molti analisti – tra i quali l’editorialista di Haaretz Yossi Bar – meno efficace e chiaro sulle criticità di politica estera e di sicurezza. L’ex giornalista ha mostrato diverse titubanze e un atteggiamento moderato sia sul tema di un possibile negoziato con i Palestinesi, sia sulle colonie in Cisgiordania, sia sul nucleare iraniano. Temi su cui Netanyahu non molla la presa nemmeno a poche ore dall’esito elettorale e su cui, in fin dei conti, Lapid dovrà trovare un punto d’accordo con gli altri partiti con cui andrà a formare il governo, destra radicale in primis.
Freccia a destra ma non svolta, per ora - I voti persi dal listone Likud-Beiteinu oltre ad essere andati al centrista Yesh Atid sono finiti difatti anche a quelle formazioni della destra radicale come HaBayit HaYehudi (che è salito dai 3 seggi del 2009 agli 11 odierni) e Shas (confermatosi a 11 seggi). Le due formazioni politiche sono diventate così le quarte forze più importanti del Paese, dietro al Labour della Yachimovich. Ma chi sono questi due partiti e cosa rappresentano nel panorama socio-economico interno? Proviamo a tracciarne un breve profilo.
HaBayit HaYehudi è un partito formatosi nel 2008 dall’unione di vari movimenti religiosi: pur essendo una forza religiosa, non è ultra-ortodossa, ma ugualmente nazional-sionista che usa grande retorica e toni populistici in particolare nei confronti dei Palestinesi. Durante la campagna elettorale, il partito guidato dal quarantenne Naftali Bennett – ex capo di gabinetto di Netanyahu, ex militare e imprenditore di successo nel settore tecnologico – è stato uno dei più intransigenti sostenitori dell’ampliamento delle colonie nei territori palestinesi, opponendosi, inoltre, sia al processo di pace, sia alla creazione di uno Stato palestinese dopo gli eventi seguiti a Pillar of Defense e il voto in sede ONU. Bennett ha chiesto soprattutto una parificazione giuridica tra le colonie in Cisgiordania e il resto del territorio israeliano: un’azione che significherebbe strappare circa il 60% dell’attuale territorio della West Bank in favore di Israele, mandando in frantumi qualsiasi ipotesi di stato della Palestina. Dal punto di vista di politica interna, Bennett ha proposto programmi analoghi a quelli di Netanyahu, marcando comunque un carattere “populista”, quando ha promesso un abbassamento dei prezzi dei generi alimentari e dei beni di prima necessità (inclusi gli affitti), e un carattere“religioso”, quando ha chiesto un rafforzamento della formazione religiosa all’interno del sistema educativo nazionale. In un certo senso il partito di Bennett è una versione più estremista del Likud.
Shas è invece un partito legato al movimento religioso sefardita e diretto dalla guida spirituale Ovadia Yosef. Fondato nel 1984, questo raggruppamento rappresenta principalmente la corrente degli ebrei sefarditi (nordafricani e mediorientali) ultra-ortodossi. Sebbene Yosef usi saltuariamente anch’egli una retorica nazionalista anti-palestinese a fini puramente elettorali, in realtà i temi che più stanno a cuore a Shas sono la difesa dell’ebraismo come religione e il sostegno economico per le famiglie numerose, specie quelli di origine mediorientale, possibilmente attraverso l’aumento dei fondi per la Yeshivas.
Rappresentanti anime ed elettorati diversi, HaBayit HaYehudi e Shas rispondono a logiche e dinamiche socio-culturali in atto in Israele già da alcuni anni: ossia una crescente contrapposizione tra nazionalisti e ultra-ortodossi. Ma lo scontro tra questi partiti è anche uno conflitto tra le due anime della destra israeliana: laici e haredim. Emblema di questa contrapposizione è proprio il Likud, come dimostra quanto avvenuto nel partito nel corso delle sue primarie di dicembre. Il partito che fu di Jabotinsky, Begin, Shamir e Sharon ha assunto un orientamento sempre più spostato a destra, trasformandosi così da un movimento tradizionalmente laico, liberale, nazionalista e conservatore ad uno oscillante tra le posizioni nazionaliste di Bennett e quelle esasperate del rabbino Yosef. La corrente interna al Likud è nota come “leadership ebraica” e che accoglie coloni e deputati di estrema destra come Moshe Zalman Feiglin, Zeev Elkin e Danny Danon. Questa divisione interna al partito rappresenta a buon titolo la spaccatura esistente nella società israeliana dove, da un lato, vi è un ceto medio-borghese laico e laborioso e, dall’altro, un mondo come quello degli haredim che vive di messianesimo e di un’identità dello Stato fondata unicamente sull’ebraismo. Oggi questo equilibrio si sta sempre più assottigliando a causa della demografia che pende a favore dei secondi: secondo le ultime stime dell’ufficio nazionale di statistica, gli ultra-ortodossi sarebbero molto più prolifici della media nazionale (8 nascite a donna contro una media di 2,6) e secondo le ultime rilevazioni costituiscono circa il 10% della popolazione. Allo stesso tempo, costoro sono anche tra i cittadini più poveri, meno produttivi e meno istruiti del Paese, con tasso di disoccupazione tra gli uomini che raggiunge il 65,1%, che non danno un contributo diretto né alla difesa né all’economia di Israele, ma che, come si diceva, pesano in misura ingente sulle finanze dello Stato. Uno studio dello stesso centro conferma che gli haredim costituiranno entro il 2030 circa un terzo del totale.
Coalizione di governo in progress - I risultati delle elezioni mostrano, dunque, il ritratto di un Paese che invece di svoltare radicalmente a destra, come sembrava nelle ultime settimane, si è buttato verso il centro. Questo rende difficile, ancora più rispetto al passato, determinare la formazione di un governo che abbia la maggioranza e che riesca a lavorare per il bene del Paese superando la diversità di visioni. In assenza di un’ampia coalizione di governo (che raggiunga perlomeno i 66/67 seggi sui 120 disponibili) non è impensabile che il Paese possa nuovamente recarsi alle urne tra nove mesi. Ad ogni modo Netanyahu nei prossimi giorni riceverà formalmente l’incarico dal Presidente della Repubblica Shimon Peres per formare il nuovo esecutivo, il quale in ogni caso dovrà coinvolgere il partito di Yair Lapid. Più difficile sarà individuare gli altri alleati. Fermo restando che con ogni probabilità il Labour non sarà fra questi – come già annunciato in campagna elettorale dalla Yachimovich – il ventaglio delle possibilità per il Premier è tanto ampio quanto problematico. Ma non senza una “via di fuga”.
Un’opzione A (vedi sotto), che contemplerebbe una coalizione allargata a Yesh Atid, al partito di Bennett, a quelli della destra religiosa, oltre che a quello della Livni (per un totale di 85 seggi) sembra un’ipotesi alquanto improbabile: anime troppo diverse e ingovernabilità garantita. Allo stesso modo sarebbe da escludere un’opzione B, che consisterebbe in una coalizione limitata ai partiti di destra: si tratterebbe di un esecutivo con una maggioranza assai risicata e che rischierebbe di cadere in poco tempo. Più plausibile, invece, l’opzione C: Likud-Beiteinu, Yesh Atid, Habayit HaYeudi (relativamente in perdita rispetto alle previsioni ma che ha comunque quadruplicato il numero dei consensi) e Hatnuah di Tzipi Livni. Un esecutivo non eccessivamente sbilanciato a destra e che rispecchierebbe le istanze evidenziate dal voto popolare.
Opzione A – Fonte: YNet
Opzione B – Fonte: Ynet
Opzione C – Fonte: YNet
Pur coinvolgendo anime politiche molto diverse tra loro, questa terza grosse koalition potrebbe rappresentare una delle poche realizzabili per poter formare un governo relativamente stabile e che operi più o meno concordemente sul piano dei problemi interni e su quello delle questioni regionali e internazionali.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)