Mi trovo dentro l’aeroporto di Zurigo Kloten, un luogo specchiato e pulitissimo. Sono seduta in attesa del mio volo.
Gli aeroporti risiedono nell’elenco dei miei personali non-luoghi.
Persone in continuo scambio, in continuo movimento o seduti a consumare il tempo necessario prima di imbarcarsi.
Asettico, tutto quello che vedo intorno. Un orizzonte metafisico, come se mi trovassi in attesa dentro una bolla biancastra e soffocante, ma ho ancora aria sufficiente prima di avvertire disagio.
Diversamente calma, inevitabilmente ferma. Lascio la città e lascio anche Lui.Sono arrivata giorni addietro con un bagaglio di inquietudine, dentro valigie che seguivano limbi trascinati fin qui.
Lasciare, che parola orribile. Un attrito fonetico tra la s e la c, come a dire esitazione, come a dire fermati e riconsidera.
Lasciare come se prima ci fosse una presa decente per giustificare questo viaggio senza un vero corso.
Arriva un momento preciso nella vita di ognuno di noi in cui bisogna fare una scelta consapevole, certa.
Scegliere, tra il godere di una sterminata illusione che è composta da aspettative sommatesi in tempi distanti oppure aprire gli occhi verso una scansione di giorni che invoca il cogliere l’attimo.
Desiderare che arrivi un tempo in cui si possa frenare il passo e dire: sono felice, oppure diventare cannibali di ogni momento e bruciare tutto, finchè non rimane un vuoto secolare e un ennesimo giorno da vivere.
Lui, perché solo gli uomini ti fanno sorgere queste domande.
Non avevo capito cosa eravamo diventati, come siamo andati avanti a strattonarci il cuore, ma ho compreso cosa siamo, adesso.
Persi, in una terribile scia di monotonia e sogni scagliati forti su pareti infami e silenziose.
Codardi, entrambi, di una codardia che fa male solo all’amore e che ci rende ancora più deboli di quanto non lo fossimo prima, prima di esporci, spogliarci, scambiarci un po’ di carne, e scoprire che non era abbastanza.
Accavallo le gambe, mi muovo dentro le spalle stanche, mi guardo intorno.
Continuo a chiedermi se è possibile giungere all’estremità di ogni razionalità.
È possibile dimenticare di quanto potevamo godere dell’innocenza delle nostre parole e del coraggio di azioni distratte e volute, intense e bellissime.
Mi chiedo, guardando una bambina cadere e sua madre che la prende per il braccio svogliata e indifferente, se è giusto restare così, cinici.
È giusto arrendersi in questo modo, rinunciare ad ogni brivido, ogni battito buono, ad ogni bicchiere di vino che profuma di fresche labbra e rumori dolcissimi di capelli sfiorati appena? È giusto pensare che non valga la pena ricominciare da capo, crederci ancora, all’amore?
Lui, cioè Tu, che mi hai salutato vile e imbarazzato, come a volermi dire, non posso fare altrimenti, sono al giro di boa di una vita grama, senza sangue e senza emozioni. Arrangiato.
Ho preso un volo che sapeva di speranza e bugie ben confezionate. Sono volata da te, che hai posato più volte la tua mano tagliente sulla mia pelle, che mi hai donato dei brividi cosi forti da creare una folla dipendenza.
Tu che non hai mai scelto sul serio, ho scelto anche questa volta io per te, scippando parole che non mi hai mai sottratto, nell’ultimo tentativo di guardarti dentro per vedere se restava ancora luce per noi.
Siamo diventati i peggiori turisti dei sentimenti. Facciamo sì che le emozioni e i ruggiti che provengono da scosse cardiache attraversino ogni circonvallazione arteriosa e fuggano via. Come i peggiori turisti, viviamo gli attimi delle vite altrui ma saldate alle nostre, pigri e distratti, e quello che resta è il racconto sterile del viaggio, una sera a cena da amici.
I turisti ricordano solo il tempo e il cibo, come noi ricordiamo solo gli anni di una storia e i ristoranti in cui ci siamo annoiati, mangiando.
Tu hai scelto di restare immobile intorno ad un recinto composto da paura e quotidianità rarefatta e opaca. Non hai rischiato di sciogliere il freno che ti cingeva il braccio, impedendo di afferrarmi e di tenermi a te.
Non reversibile, il tuo modo di anteporre té stesso a qualsiasi prospettiva di buona riuscita insieme, perché è sempre facile alzare barriere altissime in nome di autotutele e paure di farsi del male. Sciocchezze da psicanalisi a buon prezzo.
Sciocchezze, come forse lo sono le illusioni di cui spesso ricopriamo la testa per non avvertire l’urto, ci muniamo di aspettative agrodolci e immagini da Colazione da Tiffany, perché si procede bene dentro le illusioni, si sorride spesso supportati da sogni e fotografie di baci rubati per strada, si soffre di meno raccontandosi favole di cui la vita puntualmente straccia il finale lieto.
Ma una vita senza illusioni, senza calici di piaceri effimeri e racconti di ubriacature emotive come se un domani non fosse sufficiente, una vita senza stupore, senza attesa, senza niente per cui alzarsi convinti a seguito di albe e tramonti demoniaci, una vita di distanze e vigliacche scuse per evitare rischi, senza lasciarsi mai andare, una vita così è pensabile?
È pensabile ed è giusta forse, solo se si è mossi da un inarrestabile desiderio di seguitare il bene ma di sè stessi, di sopravvivenza spicciola, di dissipazione pura, di andare a dormire presto senza neppure un rimpianto.
Riaffiora l’asettico, la distanza, proprio come in questo posto in cui mi trovo, in quest’enorme macchina che tritura corpi e li smista, che si fa attraversare, ma senza trattenere nulla.
L’amore non ha toccato Te come non tocca gli aeroporti, perché l’amore è cosa altra rispetto quel brandello di fumose parole dentro cui ci siamo riversati noi, insieme.
L’amore non ha bisogno del Tuo diniego verso le cose che non riesci a spiegare, che ti terrorizzano perché sono più forti della tua ombra sul mondo, perché non puoi controllarlo e quindi ti inquieta, ti scompiglia i piani, ti tiene sveglio e ti comprime lo stomaco, parla una lingua che non comprendi, si fa beffa dei tuoi tentativi di eluderlo, raccoglie le tue lacrime di carta e ne fa uno spartito, stordendoti con la musica che i tuoi timpani non sopportano, immensa.
L’amore non merita chi non lo comprende, chi ne diventa intollerante, come si è intolleranti al latte, l’amore scorga con il nettare del coraggio e con la libertà delle passioni libere e incoscienti.
L’amore non ti merita, Amore mio, perché hai permesso che io prendessi questo maledettissimo aereo, venissi a prenderti, a guardarti negli occhi perché stanca di vederti solo attraverso uno schermo elettronico, scudo di ogni tua falsità, e capissi quanto sei lontano dall’amare, dall’amarti e dall’amare me che non ne sono mai sazia.
Hai permesso che io prendessi coscienza di quanto tu fossi indietro, dei tuoi goffi tentativi di dire mi dispiace, dei tuoi stucchevoli tentativi di non voler tagliare i fili che mi legavano alle tue dita di seta, perché la tua fragilità, così bella e celata, non poteva fare a meno di me.
Lasciare, perché prima o poi succede, prima o poi le persone soffocano e non possono vivere in camere con viste lente e insopportabili, perché necessitiamo di aria buona e di un vento salvifico che ci porti lontano.
Lascio te Amore mio, e seguo questo vento, quest’aria pura e lontana dalle mura che non possono accoglierti più, stanche anche loro di sentire urlare il mio cuore che grida le cure che tu gli hai sempre negato.
La voce meccanica del megafono annuncia l’inizio dell’imbarco di un aereo che mi condurrà a casa, via da questa città senza storia e da questo aeroporto che è stato inconsapevole custode di pensieri strazianti.
Non resta che alzarsi, procedere dritto mettersi in fila e aspettare di nuovo.
Che l’aria nuova che l’anima attende e il mio corpo rivendica possa incrociare i destini che verranno e i passi che mi accingo a muovere.
Scappo da qui. Non vedo l’ora di prendere un treno.
p.s. la lettura di questo racconto è consigliata con l’ascolto di questo brano:
Aria – Giovanni Allevi