Mentirei se scrivessi che è stata una lettura leggera, divertente o brillante.
Perché Pamuk è pesante come una lastra di piombo sullo stomaco, cupo come le città sotterranee della Cappadocia, pedante come un secchione di quarta elementare.
Per quanto riguarda lo stile, in realtà, sia da giudizi altrui che dalla lettura di un suo breve saggio, mi aspettavo una scrittura involuta e opaca, per cui nessuna sorpresa. Ma le prime 50-60 pagine di Neve sono così faticose che ho dovuto farmi violenza per proseguire, non esagero: il protagonista viene trascinato da un incontro segreto all’altro (segreto per modo di dire: impressiona vedere come a Kars tutti sappiano tutto di tutti) e costretto ad ascoltare sfoghi, confessioni, talvolta intere autobiografie di politici di provincia, attori col vezzo del colpo di Stato, studenti sognatori, integralisti islamici tombeur de femmes, islamici moderati cornuti, mentre tutti – tutti – non fanno che chiedergli se, vivendo in Occidente, è ateo, e come lo giustifica, “che Allah lo perdoni”.
Mi sono forzata a proseguire, e ho fatto bene: da un certo punto in poi la salita diventa altipiano, nonostante la rarefazione dell’ossigeno il romanzo acquista un suo respiro e le dinamiche sia politiche che sociali e personali della storia diventano un tutt’uno con una sua necessità logica.
Comprendiamo finalmente anche come la passività apatica del poeta Ka, perfino nei momenti più drammatici, non derivi da un’incapacità dello scrittore, ma dalla sua volontà di rappresentare un protagonista cui la duplice natura di poeta e di innamorato non consente di avere un ruolo attivo (salvo nel sorprendente finale). La complicatissima trama rivela insomma una sua coerenza geometrica, come il fiocco di neve che sta al suo centro, e psicologica insieme.
Diciamo che mi ero avvicinata a Pamuk spinta più che altro dalla curiosità di capire qualcosa dell’anima e della società turca: curiosità che è andata solo in parte soddisfatta. Se prima sapevo di aver guardato soltanto con l’occhio miope del turista, ora so di non saperne quasi nulla.
Né, probabilmente, è colpa di Pamuk se la Turchia contemporanea e le sue spinte contrapposte sono così difficili da capire per un italiano, se noi non capiamo l’ambiguità turca nel distinguere laicità da laicismo e religione da teocrazia.
O se non ha una visione lucida del collegamento tra il terrificante sentimentalismo turco (la popolazione di Kars che di pomeriggio si chiude in casa a guardare la telenovela messicana Mariana, poliziotti e agenti segreti compresi) e l’autoritarismo violento delle sue istituzioni (ci vorrebbe un Kundera, o uno che ha letto la trattazione di Kitsch e Potere in Kundera, per saperlo). Ma del resto cosa ci si può aspettare, quando il protagonista di un romanzo adora Roberta di Peppino Di Capri?
Resta, però, il fastidio per uno scrittore che identifica tout court l’Europa con l’Illuminismo (vedi la citazione iniziale dai Fratelli Karamazov), il che quanto meno stupisce, in un buon conoscitore della letteratura occidentale che per un suo romanzo si è paragonato a Dickens.
Così come resta l’impressione di una visione spesso puerile dei sentimenti umani (le pagine sulla gelosia di Ka per Ipek fanno impietosamente pensare a Proust, e solo per contrasto), di un’incapacità di descrivere le cose quando accadono (molti episodi cruciali del romanzo vengono inspiegabilmente riassunti, scorciati per ellissi) e di un’ingenuità sconcertante nel credere al potere taumaturgico di parole “poetiche” ossessivamente ripetute allo scopo di creare “effetti poetici” (non basta ripetere all’infinito che cade la neve, che la neve rende tutto silenzioso, che il bianco della neve fa contrasto con l’arancione delle lampade per colpire il lettore).
Rimane, infine, l’impressione di una grande forza e di un grande orgoglio femminili (qualcosa sulla “libertà di portare il velo”, su cui già mi aveva illuminata La balia del greco Markaris, credo di averla capita), ma anche quella, drammatica, di un enorme complesso di inferiorità turco nei confronti dell’Europa, direttamente proporzionale ai pregiudizi diffusi dai partiti xenofobi europei verso la Turchia.
Se non possono esserci rapporti paritari, né tantomeno comprensione reciproca, se uno dei due contraenti continua a vedere l’altro come un polo di amore e odio, di emigrazione e di disprezzo, e l’altro non fa nulla per sviluppare veri scambi, non solo commerciali, ma anche culturali, da cui il Vecchio Continente avrebbe solo da guadagnare, la situazione non evolverà mai.
(Il Pil turco nel 2010 è cresciuto del 10% e l’export del 30% circa, sicuramente la crescita più elevata d'Europa e tra le prime 10 al mondo, confrontando le previsioni del Fondo Monetario su oltre 180 paesi. Ankara vanta un rischio paese sui cinque anni inferiore a quello dell'Italia – dati Sole 24Ore).
Orhan Pamuk
Neve
Einaudi, 2002
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Per approfondimenti:
Il blog di una giornalista della Stampa, corrispondente dalla Turchia: molte curiosità, molta attualità e nessuna sindrome di Stoccolma: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/giornalisti/hrubrica.asp?ID_blog=330
L’ultimo report di Transatlantic Trends (Turchia a pagina 43): http://www.affarinternazionali.it/Documenti/TT11_ITA.pdf
Un articolo di Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa di oggi che chiarisce molto delle strategie di Erdogan: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9216&ID_sezione=29