Giovedi scorso mi sono ritrovata seduta in un’aula, ad un banco prodotto anni fa da un’azienda che, poco lontano da casa mia, sfornava arredi scolastici inondandone la penisola intera. Eravamo pochissimi: una manciata di adulti e un ragazzino che affrontavano il drago del Proficiency.
Ci sono arrivata dopo una notte inquieta, sicura di non essere abbastanza preparata, certa che alla prossima sessione mi ritroverò seduta su quella stessa seggiolina, concentrata e consapevole che, per un esame così, quattro mesi di ore rubate al tempo libero non bastano.
Il reading e il writing se ne sono andati senza colpi di scena: mi sembrava che la difficoltà fosse simile a quella dei tanti temi d’esame che avevo provato a casa, ai quali ho sempre risposto sfiorando a stento la sufficienza. Mentre ero immersa tra le sfumature lessicali, fuori il mondo era impegnato nelle proprie attività quotidiane: un giardiniere ha tagliato l’erba per due ore e non era ancora spento il motore che già un pianista, da un altro angolo dell’edificio, invitava, ripetendosi con insistenza per le due ore successive, le allieve di danza a piroettare sul pavimento, attaccando lo stesso ritornello con mirabile precisione.
In pausa pranzo ci siamo raccontati quali fossero le motivazioni che spingono gli adulti a rimettersi alla prova: due insegnanti di inglese che avevano rispolverato i libri, un insegnante di matematica, una universitaria tedesca sicura di far bene che aveva studiato negli Stati Uniti. Mancava solo il ragazzino minorenne, in maglietta, pantaloncini e sneakers, per il quale l’inglese era frequentazione dall’infanzia, che sembrava il più a suo agio e che spariva ad ogni pausa. “A casa mi hanno chiesto se sono deficiente”; “è bello rimettersi in gioco”; “mi è sembrato difficile”. Ho elaborato sensi di inadeguatezza e condiviso motivazioni.
Di ritorno accanto alla lavagna ci hanno proposto, visti i livelli di rumore, di partire con il listening. Saggia idea, visto che, se si fosse andati avanti così, probabilmente avrebbero iniziato i lavori per demolire un edificio attiguo quel medesimo pomeriggio.
Ecco: l’incubo è iniziato proprio in quel momento, da quando è stato premuto il play sul registratore e a me si è chiuso il cervello. Capivo le parole dei presentatori ma non quelle degli intervistati; il suono rimbombava in eco e si perdeva tra le matite appuntite e le cartine geografiche appese, le parole diventavano indistinguibili e a me veniva voglia di essere mille miglia lontano, tra la quiete della mia stanza in cui i listening erano sempre stati un gioco da ragazzi, un punteggio quasi pieno, il minore dei problemi.
Ho tirato ad indovinare per affidarmi all’assistenza della dea bendata ma avrei potuto consegnare in bianco. Peccato, peccato: una disfatta, porca miseria, altrimenti una dignitosissima insufficienza magari ci scappava. Adesso invece prenderò un voto così imo da non essere neppure previsto dal range di valutazione. “Ma siamo sicuri che non ci state facendo uno scherzo? Dai spegnete quel coso e ricominciamo con l’esame vero. No? E’ proprio questo l’esame vero? Siete sicuri, sicuri? Ah, ecco. Appunto”.
Lo use of english e lo speaking sono rientrati, in un’atmosfera di disillusione, nei miei ranghi del sanza infamia e sanza lodo poi, dopo aver raccattato le mie cose, mi sono avviata triste triste verso la stazione e ho telefonato ad un’amica, insegnante di inglese, che ha appena superato brillantemente il livello precedente e che mi aveva chiesto: “dopo non vendere i libri: prestameli”. “Non te li presto – le ho detto sconsolata – li condividiamo: studiamo insieme per la prossima sessione?”.
Ero così stanca e così immersa nei miei pensieri che sono salita sul primo treno per l’ovest che mi è passato davanti, senza badare al fatto che ero in anticipo di venti minuti sull’orario del mio. Non mi era mai successo prima: io sono una che controlla le cose seimila volte, sai mai che intervenga un fattore di turbamento da un universo parallelo. Ho pagato l’integrazione e sono risalita lungo il fiume come i salmoni, dopo aver ricevuto consolazione e conforto in una tappa a metà strada.
In questi giorni mi vengono in mente, a cadenze fisse di tre al giorno, gli errori che ho fatto. Proprio come una volta. Ieri ho ripreso in mano i libri, riaggiornato il piano di studi, integrandolo con ore di immersione nelle trasmissioni BBC, deciso che è ora di rispolverare anche lo spagnolo, in previsione dell’esame C1 entro la primavera prossima, altrimenti è troppo facile, e sono ripartita in quarta.
A me piace picchiare contro i muri perchè ho un’alta soglia del dolore, perchè ho scoperto che a furia di martellate molti muri che sembravano spessissimi si sgretolano e perchè, tutto sommato, rimango dell’idea che continuare ad imparare sia fondamentale per non svuotarsi dentro e perchè è stato elettrizzante constatare che alcuni esercizi, che a gennaio non sapevo nemmeno da che parte cominciare, adesso mi sembrano meno spaventosi. Guardiamo la vita da una prospettiva ottimistica!
Inizia una nuova settimana, sotto un sole cocente, tra il tripudio dei fiori e del verde acceso dei prati, con frotte di vele bianche che chiazzano il lago lucente e le cime dei monti che conservano un corto cappello di neve.
Buon lunedì a tutti.