Alcuni recenti avvenimenti personali hanno dato conferma ad un sospetto che, cogitabondo, covavo nelle visceri da tempo. Se analizziamo il significato del termine civiltà come contrapposizione semantica e concettuale di ciò che in modo diffuso viene definito come rozzo, brutale e privo di facoltà minime di discernimento applicate ad un consesso di condivisione esistenziale tra simili, si giunge facilmente alla trista novella che l’essere umano non gode di questa dote. Non gli è propria. Ed è peggio finanche della belluina grazia delle fiere più spietate che ardono palpitanti di vita in perfetto equilibrio con se stesse.
Sono giunto alla conclusione definitiva che la civiltà sia una prerogativa della quale sono dotate le forme di vita vegetali. Placide, stoiche, partecipi agli eventi ma allo stesso tempo socraticamente e ironicamente distanti da qualsiasi affettazione. Mi piacerebbe essere un albero: osservare per decenni la stessa valle, lo stesso sole, lo stesso cielo. E poi lentamente morire, senza drammi, beffardo davanti agli orrori di una tragedia priva di catarsi.
Mi si perdoni il volgarissimo accostamento ma apprende di più una foglia in una stagione che un amministratore delegato ad un meeting di una settimana.
Ho sviluppato una forma ipertrofica di disistima nei confronti dei miei simili (pur senza reputarmi superiore a nessuno) che mi permette di guardare con sconcertato disincanto tutte quelle miserevoli turpitudini che contraddistinguono quella che in teoria dovrebbe essere l’attività qualificante per eccellenza dell’individuo. Quando al lavoro assisto a qualcosa di edificante è solo una casualità , un lancio di dadi maldestro che occulta nel migliore l’abbandono all’indeterminatezza e alla fatalità . E se casualità non è il fine è certamente poco edificante, celato da un’apparenza sordidamente irreprensibile.
Che miserie di attimi…
Mi consola sapere che il disprezzo pasce l’odio e che l’odio è un sentimento degnissimo. Antico. Sicuramente tra i primi, se non il primo, che l’uomo abbia nutrito.