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"No business as usual" alle Nazioni Unite

Creato il 26 settembre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Gianpiera Mancusi

Si è aperta martedì 21 settembre, con la consueta parata di Capi di Stato e di Governo, il General Debate della 66esima Assemblea Generale. Il Segretario Generale, Ban Ki-moon, ha dato il via ai lavori con un discorso nel quale ha ricordato ai presenti la necessità di prendere decisioni coraggiose per assicurare un mondo migliore alle generazioni future. Allo stesso tempo ha evidenziato l’importanza di adeguarsi ad un mondo che cambia.

E che molto sia cambiato, in quest’ultimo anno, è ben visibile anche solo passando in rassegna la lista degli interventi, dove mancano i nomi dei dittatori che sono caduti sotto i colpi (democratici) della cosiddetta “Primavera Araba”. Manca anche il Colonnello Gheddafi, impegnato a nascondersi dai bombardamenti NATO e che, sicuramente, pochi rimpiangeranno anche qui a causadei suoi lunghissimi interventi (due anni fa riuscì a “intrattenere” i presenti con un discorso di ben 100 minuti). Ma tante sono le nuove personalità che hanno preso (e prenderanno) la parola tra il 21 e il 30 Settembre. Ha già parlato il Presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, che, nel suo intervento, ha ringraziato le Nazioni Unite per il ruolo decisivo che hanno avuto nella risoluzione nella crisi post-elettorale ivoriana. Grande emozione e curiosità, poi, per il debutto, al Palazzo di Vetro, del Sud Sudan, che lo scorso 14 luglio è divenuto il 193esimo membro dell’Onu. Il Presidente Salva Kiir, rivolgendosi all’Assemblea, ha chiesto ai presenti di continuare a supportare il suo popolo nella battaglia contro la povertà estrema, precisando come la giovane nazione, che esce da un lungo e sanguinoso conflitto con il Sudan di Al-Bashīr, stia oggi attraversando una fase di costruzione più che di ricostruzione post-conflitto. Un chiaro messaggio ai Paesi donatori affinché siano particolarmente generosi nell’elargire aiuti economici.

Il discorso di Abu Mazen   

Non è la prima volta per lui, ma è il suo l’intervento che tutti aspettavano con trepidazione. Abu Mazen fa ingresso in sala accompagnato da lunghi applausi, una vera e propria standing ovation. Inizia il suo discorso con un duro attacco alla politica israeliana, citando le numerose azioni perpetrate in spregio del diritto internazionale – tra cui lapolitica dei settlements (colonie di ebrei in territori palestinesi, in particolare a Gerusalemme Est). Ricorda il fallimento dei negoziati dello scorso anno e, pur non nominando mai il Presidente americano Barak Obama, fa intendere di ritenere anche gli Stati Uniti responsabili per lo stallo. Poi, improvvisamente, i toni si calmano e Abu Mazen apre ad Israele il cui Primo Ministro, Benjamin Netanyahu, non è in sala. Rassicura sul fatto che non è nelle intenzioni dell’Autorità Palestinese, isolare Israele, in un momento in cui lo stato ebraico soffre di emarginazione regionale. E’ solo verso la fine che arriva il passaggio più atteso: il Presidente dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) comunica ai presenti di aver consegnato al Segretario Generale la richiesta di riconoscimento dello Stato Palestinese come 194esimo membro delle Nazioni Unite. Ha quindi fatto appello ai quindici membri del Consiglio di Sicurezza, chiedendo di votare a favoredella richiesta di uno Stato basato sui confini del 1967, ossia prima della Guerra dei Sei Giorni, e con Gerusalemme Est come capitale.

I prossimi passi

Secondo le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, il Segretario Generale deve trasmettere la richiesta di adesione al Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea Generale. Il Consiglio, formato da quindici membri, di cui cinque con potere diveto, esamina la domanda e decide se raccomandare o meno l’ammissione all’Assemblea Generale. In caso di voto favorevole in seno al Consiglio, l’Assemblea adotta, con una maggioranza di due/terzi, una risoluzione con la quale concede lo statusdi “stato membro”. Ovviamente, a meno d’improbabili colpi di scena, la richiesta verrà respinta. Barak Obama, infatti, ha già annunciato il veto e davanti all’Assemblea ha dichiarato come la proclamazione di uno Stato palestinese non possa esser fatta con atti unilaterali, ma solo attraverso il negoziato. Lo stesso Netanyahu, parlando a breve distanza da Abu Mazen, ha detto che la costituzione dello Stato palestinese può avvenire solo dopo la firma di un accordo di pace.

Una svolta impossibile?

La “minaccia” del veto americano potrebbe far pensare che, a parte qualche faccia nuova vistasi aggirare tra i corridoi del Palazzo di Vetro, nulla è cambiato e nulla cambierà nel breve periodo. Eppure, i margini di una svolta ci sono. Chiedendo l’ammissione alle Nazioni Unite, Abu Mazen, ha riportato nell’agenda internazionale la questione  palestinese, “oscurata”, negli ultimi mesi, dalla generale situazione d’instabilità in Medio Oriente e dalla guerra in Libia. Si è poi fatto portavoce della frustrazione del proprio popolo che vede nella “lotta” verso la costituzione di uno Stato la propria “Primavera Palestinese”. Ma, soprattutto, sa bene di avere una seconda opzione: la possibilità di sottomettere una richiesta direttamente all’Assemblea Generale, dove circa 126 Paesi (su un totale di 193) hanno già riconosciuto lo Stato palestinese (secondo i dati forniti dal rappresentante palestinese all’ONU). Poiché, in questo caso, basta la maggioranza semplice, la risoluzione passerebbe senza problemi. Tuttavia, facendo ricorso a questa seconda opzione, la Palestina guadagnerebbe uno statusibrido ossia di stato non-membro delle Nazioni Unite. Ciò costituirebbe un upgrade rispetto all’attuale status di entità osservatrice (di cui gode dal 1974) e amplierebbe i suoi diritti, permettendole di entrare a far parte delle agenzie delle Nazioni Unite e, soprattutto, di poter appellarsi ai tribunali internazionali e, in particolare, alla Corte Penale Internazionale sui casi di violazioni di diritti umani da parte delle forze di sicurezza israeliane nei territori occupati.

Intanto il governo palestinese ha invitato i membri del Consiglio a non procrastinare la data del voto e a decidere in merito entro due settimane. Perciò solo allora vedremo se le parole si tradurranno in fatti e se le promesse e gli applausi non termineranno con l’abbassarsi dei riflettori.

* Gianpiera Mancusi è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)


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