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No Monti Day contro l’anestesia

Creato il 27 ottobre 2012 da Albertocapece

No Monti Day contro l’anestesiaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri da buoni addetti alle pubbliche relazioni con la cittadinanza, qualche carabiniere operativo nel quadrilatero della moda, si è affacciato nelle boutique dispensando raccomandazioni e consigli di prudenza: ma lei domani è sicuro di tenere aperto? Lo sa che si prepara una manifestazione? È sicuro che non sia preferibile tenere chiuso? Per non parlare delle persuasive pressioni esercitate su negozi e bar delle vie strategiche, Via Labicana e Via Merulana, esortati a ricordare che il no monti day celebra l’anniversario e commemora gli incidenti dell’anno scorso dei quali sono stati vittime soprattutto il buonsenso, qualche cassonetto e che ha visto l’eroico sacrificio di uno sportello bancomat, al centro di polemiche e dietrologie improvvide.
Devono essere stati convincenti gli avvertimenti: oggi Haussman sarebbe contento di Roma, delle arterie deserte e transennate, lunghi nastri pronti a far sfilare truppe dissuasive del passeggio, cavallerie scoraggianti il turismo e forze pubbliche inibitrici della civile partecipazione.

Roma è oggi una città avvilita da una notte di persistente pioggia autunnale e annichilita dalla minaccia annunciata e preventivata, vuota, plumbea, demoralizzata. Qualche negoziante orgogliosamente ha rivendicato di non volersi piegare alla prudente “prevenzione”, rinviando la chiusura a quella definitiva altrettanto prevista e inevitabilmente favorita dalle misure governative, non quelle degli scontrini ma quelle della contrazione dei consumi e dell’impoverimento sparso come una polvere velenosa su tutti.
Non si dovrebbe trattare così una città, umiliarla con la paura del dissenso, piegarla al coprifuoco con l’annuncio preoccupante e buio della critica che scende in piazza, come un pericolo. Ma proprio come dieci anni fa a Genova la scelta è quella di rompere il patto di collaborazione tra istituzioni e cittadini preferendo una militarizzazione autoritaria e dissuasiva della libera espressione di pensiero e di manifestazione dell’opinione e dell’obiezione. Con l’esito ampiamente sperimentato di isolare e perseguire i “buoni”, di scatenare la cavalleria in modo che possa emulare Bava Beccaris, di lasciare campo libero alla provocazione, mentre una confusa caligine copre indifferentemente torti e ragioni.

Hanno paura dei greci, degli spagnoli, hanno paura delle primavere e degli autunni caldi. Hanno paura di noi, anche se sembriamo anestetizzati dalla sorpresa sella povertà, ripiegati dalla perdita di sicurezze e garanzie, salvo chi sale sulle gru, chi si dà fuoco sul Colle, chi urla il suo risentimento contro il ricatto di scegliere tra salute e lavoro, tra certezze e posto, tra diritti e sopravvivenza. Ma ogni giorno qualcuno vicino a noi, in famiglia, è colpito, dopo le prime file, come nelle battaglie del Settecento, cadono anche le seconde e le terze. All’inizio le vittime si vergognavano del vulnus come fosse un contagio disonorevole, si rifugiavano in una pudica solitudine. Adesso cominciano a esprimere la collera per l’umiliazione subita, per l’ingiustizia sofferta.
Si, adesso chi è arrabbiato fa paura, ma deve cominciare anche a fare amicizia, per non aver paura di se stesso come succede a chi è solo. Oggi a Roma, come nelle settimane scorse a Taranto, come a Milano e Torino si tiene una prova generale della possibilità e della necessità di ritrovare coesione e solidarietà frustrate contro l’inimicizia alimentata come un valore, contro l’ostilità nutrita come una difesa.

Sempre di più le città sono il teatro della nostra scontentezza e della sopraffazione agitata per soffocarla. Perché è nelle città che si consumano e diventano tremendamente evidenti le terribili disuguaglianze e le orrende differenze. E è là che se la sicurezza diventa repressione, l’urbanistica vira in scienza dell’ordine pubblico per mettere in atto una topografia delle divisioni tra privilegio e sommersione, tra opulenza privata e miseria pubblica. Fortezze arroccate moltiplicano strumenti e attrezzature di difesa dallo stringersi intorno dell’indigenza, dal crescere tossico di slum, dal dispiegarsi di bidonville disperate.
E sempre di più i governi sanno di dover difendere i loro unti del signore, i loro “eletti”, ampliando la gamma delle forze, pubbliche e private, degli eserciti, preferendo quelli tradizionalmente “ militari”, tagliando risorse alle polizie, in modo da renderle più controllabili, esperimentando dispositivi e tecnologie di controllo da impiegare contro le ribellioni molto più pervicacemente che contro la criminalità.

La Banca Mondiale ha manifestato la paura che circola insidiosa: “La povertà urbana diventerà il problema principale e politicamente più esplosivo del prossimo secolo”, l’urbanesimo planetario combinato con l’immiserimento diffuso nell’epoca della catastrofe capitalista sono una bomba globale pronta a scoppiare. Bombay, con dieci o dodici milioni di occupanti abusivi e abitanti di bidonville è la capitale globale dello slum, seguita da Città del Messico e Dhaka (tra i nove e i dieci milioni ciascuna), e poi Lagos, Il Cairo, Karachi, Kinshasa-Brazzaville, São Paulo, Shanghai e Delhi (tra i sei e gli otto milioni ciascuna). E ricordano che la città moderna, l’utopia urbana è diventata un incubo che invece di stagliarsi con le sue ardite strutture in vetro e acciaio, si svilupperà in una geografia di cartoni catramati, di plastica riciclata, di blocchi di cemento, di paglia e legname di recupero. Che la cifra esistenziale del futuro, al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, sarà un disperato squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo.
Esprimere il nostro dissenso e stringere nuovi vincoli di amicizia e solidarietà perché nessuno sia così solo da generare male contro di sé o suscitare irrazionalità e divisione, ritrovare la forze di essere insieme e in tanti contro disuguaglianze e iniquità, sono la nostra speranza e il nostro obbligo.


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