Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ieri da buoni addetti alle pubbliche relazioni con la cittadinanza, qualche carabiniere operativo nel quadrilatero della moda, si è affacciato nelle boutique dispensando raccomandazioni e consigli di prudenza: ma lei domani è sicuro di tenere aperto? Lo sa che si prepara una manifestazione? È sicuro che non sia preferibile tenere chiuso? Per non parlare delle persuasive pressioni esercitate su negozi e bar delle vie strategiche, Via Labicana e Via Merulana, esortati a ricordare che il no monti day celebra l’anniversario e commemora gli incidenti dell’anno scorso dei quali sono stati vittime soprattutto il buonsenso, qualche cassonetto e che ha visto l’eroico sacrificio di uno sportello bancomat, al centro di polemiche e dietrologie improvvide.
Devono essere stati convincenti gli avvertimenti: oggi Haussman sarebbe contento di Roma, delle arterie deserte e transennate, lunghi nastri pronti a far sfilare truppe dissuasive del passeggio, cavallerie scoraggianti il turismo e forze pubbliche inibitrici della civile partecipazione.
Roma è oggi una città avvilita da una notte di persistente pioggia autunnale e annichilita dalla minaccia annunciata e preventivata, vuota, plumbea, demoralizzata. Qualche negoziante orgogliosamente ha rivendicato di non volersi piegare alla prudente “prevenzione”, rinviando la chiusura a quella definitiva altrettanto prevista e inevitabilmente favorita dalle misure governative, non quelle degli scontrini ma quelle della contrazione dei consumi e dell’impoverimento sparso come una polvere velenosa su tutti.
Non si dovrebbe trattare così una città, umiliarla con la paura del dissenso, piegarla al coprifuoco con l’annuncio preoccupante e buio della critica che scende in piazza, come un pericolo. Ma proprio come dieci anni fa a Genova la scelta è quella di rompere il patto di collaborazione tra istituzioni e cittadini preferendo una militarizzazione autoritaria e dissuasiva della libera espressione di pensiero e di manifestazione dell’opinione e dell’obiezione. Con l’esito ampiamente sperimentato di isolare e perseguire i “buoni”, di scatenare la cavalleria in modo che possa emulare Bava Beccaris, di lasciare campo libero alla provocazione, mentre una confusa caligine copre indifferentemente torti e ragioni.
Hanno paura dei greci, degli spagnoli, hanno paura delle primavere e degli autunni caldi. Hanno paura di noi, anche se sembriamo anestetizzati dalla sorpresa sella povertà, ripiegati dalla perdita di sicurezze e garanzie, salvo chi sale sulle gru, chi si dà fuoco sul Colle, chi urla il suo risentimento contro il ricatto di scegliere tra salute e lavoro, tra certezze e posto, tra diritti e sopravvivenza. Ma ogni giorno qualcuno vicino a noi, in famiglia, è colpito, dopo le prime file, come nelle battaglie del Settecento, cadono anche le seconde e le terze. All’inizio le vittime si vergognavano del vulnus come fosse un contagio disonorevole, si rifugiavano in una pudica solitudine. Adesso cominciano a esprimere la collera per l’umiliazione subita, per l’ingiustizia sofferta.
Si, adesso chi è arrabbiato fa paura, ma deve cominciare anche a fare amicizia, per non aver paura di se stesso come succede a chi è solo. Oggi a Roma, come nelle settimane scorse a Taranto, come a Milano e Torino si tiene una prova generale della possibilità e della necessità di ritrovare coesione e solidarietà frustrate contro l’inimicizia alimentata come un valore, contro l’ostilità nutrita come una difesa.
Sempre di più le città sono il teatro della nostra scontentezza e della sopraffazione agitata per soffocarla. Perché è nelle città che si consumano e diventano tremendamente evidenti le terribili disuguaglianze e le orrende differenze. E è là che se la sicurezza diventa repressione, l’urbanistica vira in scienza dell’ordine pubblico per mettere in atto una topografia delle divisioni tra privilegio e sommersione, tra opulenza privata e miseria pubblica. Fortezze arroccate moltiplicano strumenti e attrezzature di difesa dallo stringersi intorno dell’indigenza, dal crescere tossico di slum, dal dispiegarsi di bidonville disperate.
E sempre di più i governi sanno di dover difendere i loro unti del signore, i loro “eletti”, ampliando la gamma delle forze, pubbliche e private, degli eserciti, preferendo quelli tradizionalmente “ militari”, tagliando risorse alle polizie, in modo da renderle più controllabili, esperimentando dispositivi e tecnologie di controllo da impiegare contro le ribellioni molto più pervicacemente che contro la criminalità.
La Banca Mondiale ha manifestato la paura che circola insidiosa: “La povertà urbana diventerà il problema principale e politicamente più esplosivo del prossimo secolo”, l’urbanesimo planetario combinato con l’immiserimento diffuso nell’epoca della catastrofe capitalista sono una bomba globale pronta a scoppiare. Bombay, con dieci o dodici milioni di occupanti abusivi e abitanti di bidonville è la capitale globale dello slum, seguita da Città del Messico e Dhaka (tra i nove e i dieci milioni ciascuna), e poi Lagos, Il Cairo, Karachi, Kinshasa-Brazzaville, São Paulo, Shanghai e Delhi (tra i sei e gli otto milioni ciascuna). E ricordano che la città moderna, l’utopia urbana è diventata un incubo che invece di stagliarsi con le sue ardite strutture in vetro e acciaio, si svilupperà in una geografia di cartoni catramati, di plastica riciclata, di blocchi di cemento, di paglia e legname di recupero. Che la cifra esistenziale del futuro, al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, sarà un disperato squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo.
Esprimere il nostro dissenso e stringere nuovi vincoli di amicizia e solidarietà perché nessuno sia così solo da generare male contro di sé o suscitare irrazionalità e divisione, ritrovare la forze di essere insieme e in tanti contro disuguaglianze e iniquità, sono la nostra speranza e il nostro obbligo.