All'epoca di questa storia avevo circa vent'anni e il mio interesse per il jazz era marginale. Ascoltavo con piacere Glenn Miller, Benny Goodman, Frank Sinatra con Tommy Dorsey, ma, non possedendo un giradischi, il tutto si limitava alla radio ed al cinema, dove non mi perdevo i vari film musicali da Cantando sotto la pioggia a Un americano a Parigi, ecc..In una fredda sera d'inverno di una cinquantina d'anni fa, nel cortile di una caserma nel Nord-Italia, avvenne l'incontro che trasformò la mia vita di fruitore di musica. Quella sera non ero andato in libera uscita e passeggiavo nel cortile, fumando e pensando a casa e alla mia ragazza (quella che dopo 50 anni è ancora qui con me), quando vidi un caro amico che rientrava con una grossa busta di un noto negozio di dischi.Incuriosito gli chiesi di mostrarmi gli acquisti, pensando che tirasse fuori Elvis Presley o cose simili e invece mi mostrò un LP intitolato Charlie Parker plays Cole Porter.

Man mano che quel sassofono dal suono così particolare continuava a inanellare sequenze di note sentivo un brivido leggero corrermi lungo la schiena, mai prima di allora della musica mi aveva fatto quell'effetto. Il brano successivo: I love Paris, confermò quello stato di eccitazione e capii di aver scoperto un mondo nuovo che non conoscevo.Solo anni dopo seppi che quei due brani erano gli ultimi che Parker aveva registrato in studio, il 10 dicembre 1954, poche settimane prima della crisi che di lì a poco, il 12 marzo 1955, lo avrebbe portato alla morte. Erano il suo canto del cigno.
Da allora ho cominciato ad avvicinarmi gradualmente al jazz, partendo da Charlie Parker che per anni fu il mio punto di riferimento e allargando lo spettro sono arrivato a Miles Davis, a Bud Powell, a Coleman Hawkins e via via così negli anni, fino a fare di questa musica il mio principale interesse “non lavorativo”.Chiudo queste note con un video che ci mostra Parker in una breve esibizione filmata, una delle poche in circolazione.



