Pubblicato da matteotelara su gennaio 30, 2012
Trama, emozione, personaggi, tema, stile, ambientazione, dialoghi, disciplina, cura del dettaglio, visione d’insieme: scrivere fiction (e soprattutto buona fiction) “può essere un lavoro difficile e solitario, come attraversare l’Atlantico con una vasca da bagno” dice Stephen King in “On writing, a memoir of the craft”.
Ma per quanto negli ultimi decenni il ‘segreto’ di tale traversata sia stato rivelato, sviluppato e sviscerato con bussole, mappature, guide, manuali di navigazione assistita e GPS, le vasche da bagno continuano a costituire il mezzo meno indicato ad attraversare gli oceani, soprattutto per chi, a metà strada, scopre di soffrire il mal di mare.
Nel suo “On writers and writing” John Gardner, usando una metafora un po’ più camuffata ma altrettanto autoevidente, dice: “fiction is the only religion I have”. E chi davvero naviga lo sa, che vasche da bagno o meno nessun oceano può essere attraversato senza fede.
John Gardner e Stephen King sembrano a prima vista distanti quanto lo sono i loro libri. Eppure, nella bonaccia che alle volte placa le superfici rendendo uniformi le distanze, risultano più avvicinabili di quanto a prima vista si potrebbe pensare.
Quando ero ragazzino il mio allenatore di pallacanestro amava ripetermi che la forza di una squadra e la bellezza di uno sport vanno ricercate nelle differenze tra i loro giocatori. Trasferendo queste parole sul terreno insidioso della scrittura creativa, potremmo dire che è sempre la differenza degli approcci a restituire la corretta visione d’insieme.
John Gardner, controverso personaggio del mondo della letteratura e della cultura americani, è oramai da anni oggetto di dibattiti e polemiche. La sua concezione etica dello scrivere e del ruolo della scrittura in una società, ovvero la sua idea di una letteratura che aiuti l’uomo a cimentarsi con l’immortalità, sanando i conflitti del nostro cuore e le assurdità della vita quotidiana, una letteratura, insomma, che porti con sé una grande componente di responsabilità morale, sono oramai riconosciute e in larga parte condivise.
“True fiction” scrive Gardner “celebrates life.”
Se la vita può spesso sembrare un nonsense impregnato di dolore (almeno quella di noi umani, per quel che ne sappiamo) ci penserebbe l’arte a riscattarla. “È il potere poetico-etico delle storie a salvarci” dice Gardner.
Gardner ha forti radici classiche (e si sente) e in più punti la sua ferma opposizione a una produzione letteraria di puro intrattenimento (che allontana dalla realtà invece di farcela conoscere, o meglio, che ci fa evadere dalla vita per rinchiuderci in una prigione) trova riscontro in una teoria della scrittura volutamente non sistematica, ma sempre articolata, che abbraccia tutti gli aspetti della creazione con continui riferimenti agli autori a lui contemporanei, a lui precedenti e, per quel che è possibile, a lui e a noi futuri.
Questo aspetto, ovvero l’intima relazione tra arte e vita, si può ritrovare in una certa misura anche in King, sebbene nell’autore del Maine il tutto sembri stemperarsi in una visione più leggera (alcuni direbbero più superficiale) dello scrivere e delle sue responsabilità: lasciando da parte le problematiche della teoria e dell’analisi dei testi, King fa riferimento più che altro alla sua personale esperienza di scrittore (si tratta pur sempre di una “memoir” no?) con uno stile più narrativo che saggistico, e con l’idea di fare della sua vita e della sua esperienza un continuo elemento di relazione con la sua concezione dello scrivere, delle scuole di scrittura creativa e degli scrittori che le frequentano. A differenza di Gardner infatti (che ha una grande fiducia nell’insegnamento e nelle possibilità ad esso correlate) King dichiara fin da subito il suo scetticismo nei confronti di tali realtà, spiegando che a suo parere esistono bad writers, competent writers, good writers e great writers. “It is impossibile to make a competent writer out of a bad one” dice, “or a great one out of a good one, but it is possible to make a good writer out of a merely competent one.” E l’annosa diatriba sul creative writing parrebbe quasi potersi riassumere in queste poche righe.
Il segreto, al di là di una predisposizione iniziale che deve comunque esserci, e senza la quale nulla può essere davvero creato (“the equipment comes with the original package” dice King) resta quello di leggere e scrivere tanto. ‘Leggere’ è sia per King che per Gardner il centro creativo nella vita di uno scrittore – e questo vale soprattutto per la flotta di vasche da bagno al largo delle coste italiane (vd anche articolo di Anna Maria Ortese qui) –: occorre leggere ampiamente e in maniera diversificata, e poi costantemente rifinire il proprio scrivere mentre lo si fa.
Ma Gardner insiste sul valore ‘morale’ di quel che si legge, cioè su una letteratura che sappia investigare l’irriducibile solitudine che costituisce la condition humaine, mentre King sembra optare per qualsiasi cosa attiri il nostro interesse. Nel suo stile informale, King ci parla di stanze e seminterrati, di ricordi, di autori che ama e di strumenti essenziali al comporre (illuminante è il paragone col portattrezzi a più livelli di zio Oren, carpentiere forse mai esistito) dilungandosi sugli avverbi (a suo parere assolutamente – ops – da evitare) ed essenzialità (“keep it simple but meaningful” diceva Hemingway) e ci porta attraverso qualche centinaia di pagine con agilità e abbondanza d’esempi, lasciandoci alla fine con l’idea che se il talento c’è, e abbiamo la forza e la voglia (ma soprattutto “the calling”, la chiamata) per farlo, allora non resta che entrare nella vasca e cominciare a pagaiare.
Tutto così semplice dunque? No.
Ed è Gardner a prendersi la briga di ricordarcelo più spesso.
In “On writing” King è convincente senza scadere nell’entusiastico, piacevole senza perdersi nel superfluo, ma qualcosa nel suo modo di vivere la scrittura appare troppo personale (lo dichiara lui stesso) per poter essere applicato con successo alla folla di volenterosi che vogliono imitarlo. Scrivere, per King, è in primo luogo “great fun”, ovvero un gran bel divertimento, forse la maniera più bella ed emozionante di passare le proprie giornate, qualcosa di differente da quella sorta di “joy” (in senso quasi sant’agostiniano) di cui sembra invece parlare Gardner, e che in quest’ultimo si raggiunge solo al termine di un lungo e travagliato processo di ricerca. Gardner si richiama a Omero, cita i classici, porta esempi articolati, dà l’idea di una letteratura come difficile conquista, una cosciente e assurda fatica di Sisifo che anche quando ‘salva’ impone sacrifici enormi, e che per essere tale deve in primo luogo contenere in sé le ragioni del proprio essere: “the heart of good fiction is always religious” dice Gardner. E ancora, citando Coleridge, “nothing can permanently please that does not contain in itself the reason why it is as it is and not otherwise.”
Great fun o joy, best seller o classici, plot o condition humanine resta la paradossale complementarietà tra due testi e due autori diversissimi, insieme all’idea che – come ne “Il Castello dei destini incrociati” di Calvino (tra l’altro citato dallo stesso Gardner) – abbiamo sempre bisogno gli uni delle carte degli altri per raccontare qualunque storia inclusa la nostra.
Se il terreno in comune tra i due testi allora c’è, va forse (e al di là di tutto) ricercato nella famosa vasca da bagno, e in quella ‘fede’ che ne supporta la ragion d’essere.
King parla di “words, style and magic”.
Gardner di “magic, love and creative force”.
Entrambi insistono sul ruolo importante ma non fondante della tecnica (che comunque è l’unica cosa che in fondo si può imparare): “the truth of what you say” dice Gardner, “is what really matters, and the only importance of technique is that when you say it badly, you haven’t said it.”
“Learn how to use the tools in your toolbox” dice King, come sempre in maniera diretta, usando metafore per visualizzare concetti.
Resta centrale, per entrambi gli autori, il concetto che “riscrivere” è importante quanto “scrivere,” e che decisiva è in questo senso l’onestà dell’artista, ovvero la “relazione morale tra l’artista e il suo materiale” (non a caso Gardner cita spesso Tolstoj) o, per dirla alla King: “as long as you tell the truth, baby.”
Ma spiccate differenze e complementarietà degli approcci a parte (sia King che Gardner sottolineano la natura di ‘chiamata’ dello scrivere a scapito della ‘carriera’: non si scrive per diventare famosi, si scrive per confrontarsi col ‘mistero delle cose’) resta pur sempre quell’oceano da attraversare, e resta il rischio del naufragio; resta la paura degli eventi naturali e l’enormità dei drammi interiori: resta la problematica della ragione profonda per cui si decide d’imbarcarsi.
King dichiara di partire sempre da una ‘situazione’ per poi passare a raccontare una storia – spesso all’oscuro quanto i suoi personaggi di dove questa condurrà – “good fiction always begins with story and progress to theme” dice. Gardner invece organizza una sorta di piano di sviluppo iniziale e si dice convinto che occorra sempre partire dal ‘theme’ per poi passare al racconto. King dichiara di concludere in genere la prima stesura di un romanzo in poco più di tre mesi, e le due successive nei seguenti sei (tempo limite, a suo parere, per non perdere l’entusiasmo e il beat di ciò che si racconta); Gardner invece ha scritto meno e insegnato di più (e non è sopravvissuto a un incidente stradale, a differenza di King) e fa sempre riferimento a ‘tempistiche’ ben più complesse e dilatate.
Intorno a loro si allarga la grande distesa dei ‘prolifici’ (John Creasey, novellista inglese che ha scritto quasi seicento romanzi) dei ‘solitari’ (gli autori di un solo libro, su tutti Harper Lee) dei ‘costanti’ (che con regolarità pubblicano un libro ogni due-tre anni) degli ‘incompresi’ (“everything we write is an experiment” dice Gardner, “only if the experiment fails do we call the work experimental”) e di quelli ancora impegnati nella traversata.
Come orientarsi allora?
Viene alla mente Sarah Shun-lien Bynum (di cui tra l’altro si parla qui) acclamata autrice di “Madelein is sleeping” e “Ms. Hempel Chronicles”, e collocata dal New Yorker tra i venti migliori scrittori americani under 40, ovvero ‘il nuovo che avanza’, che in un’intervista recente, alla domanda “quanto tempo ha impiegato a scrivere il suo primo romanzo?” “Dieci anni” ha risposo.
Pagaiatori in vasche da bagno avvisati.