Tutte queste riflessioni, a che servono? Non è meglio scrivere e basta? Il punto è proprio qui: scrivere non è mai un “scrivere e basta”, benché si sia lavorato bene negli anni per arrivare a questa situazione.
Il libro come un pretesto per parlare d’altro. Basta guardare quello che propina la televisione.
Spesso si trova lo scrittore ospite. A un certo punto l’intervistatore se ne esce con un:
“E ne hai parlato anche nel tuo ultimo libro”.
E lo scrittore sorride, ammette.
Oppure:
“Hai scritto questo libro” (21 secondi nel quale l’autore spiega il bel tomo di 246 pagine)
Quindi:
“Ma che ne pensi di…” (chi legge aggiunga l’argomento che preferisce).
Il libro secondo costoro, non contiene sufficiente forza per cavarsela da sé, bisogna far comprendere alla gggente che chi scrive non è diverso dagli altri. E la pensa, eccome, e ha delle idee sull’economia, la politica, la religione, da far impallidire.
Impallidire perché sono sciocchezze talmente enormi da rimpiangere la beata ignoranza dei gorilla di montagna.
Il libro, se rispetta certe condizioni (per esempio: non svela, ma celebra il mistero), possiede sufficiente forza per cambiare la vita di una persona. No, non del mondo, ma di una persona sì.
Certo, ciascuno è libero di agire come desidera, tuttavia un po’ di riflessioni su quello che scrivere significa, non credo faccia male.
Ho già spiegato in passato che proprio adesso, di questi tempi, è bene riflettere se il libro (in qualunque forma: digitale o cartaceo), abbia ancora spazio, e se sì quale. Io credo di sì, benché questo spazio continuerà in futuro a ridursi.
Ma grande o piccolo che sia il posto occupato dal libro, è necessario mettere alla frusta i due neuroni che possediamo, e riflettere per bene sulla parola, la sua forza. Questa resta intatta, e proprio per questa ragione si dovrebbe riflettere su che cosa si debba fare.
Il libro ridotto a coperta per tenere caldo.
O il libro che riporta il mistero ad abitare tra gli uomini?