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Non hai mai capito niente – Non è più come una volta

Da Marcofre

Altro estratto dai miei racconti. Il titolo: “Non è più come una volta”.

Buona lettura.


Come ogni giorno si sveglia alle sei, fa una doccia, si veste. Dopo un caffè esce dall’abitazione, una casa di due piani dalle grondaie di rame e con i balconi in ferro battuto.

Si chiama Stefano Pertinace e una volta era un imprenditore di successo.

Percorre la breve strada in discesa sino al cancello, dove un lampione illumina l’insegna: “OMP – Officine Meccaniche Pertinace srl”. In mano tintinnano le chiavi per sbloccare il lucchetto; spinge il portale sulla rotaia, cammina per pochi metri sino alla porta che conduce nel capannone. Evita di passare per l’ufficio, a destra. Disattiva l’allarme, quindi due giri di chiave, e varca la soglia.

Resta immobile, al buio. Conosce a memoria la disposizione dei carrelli, delle macchine, delle attrezzature. Rabbrividisce, alza il colletto della giacca di pelle, e si sposta a sinistra, dove c’è il pannello degli interruttori; ne fa scattare un paio e i neon folgorano l’interno di una luce fredda.

Due anni prima, il tracollo dell’economia statunitense ha azzerato gli ordini, reso le banche fameliche, prosciugato il capitale. L’azienda è in liquidazione, a giorni il curatore fallimentare metterà i sigilli.

Cammina per un paio di metri e si ferma. Solleva il capo, guarda il carroponte, si avvicina alla pulsantiera pensile, la tira a sé. Preme un tasto e la macchina restituisce un suono secco; si muove sui binari per qualche metro con un rumore solenne, che si interrompe quando solleva il pollice e ne ferma il movimento. Il gancio oscilla a lungo, gli anelli della catena sfregano, si chetano. Stefano lascia la pulsantiera, che si allontana e torna verso di lui, lo colpisce al braccio con un tocco leggero.

Passa vicino ai bidoni pieni di segatura usata per assorbire l’olio sull’impiantito dell’officina, entra nella stanza che ospita il tornio. Accende la luce, fissa la macchina per qualche secondo, sposta con un piede lo strato di trucioli di metallo sul pavimento; spegne, esce, chiude la porta a vetri. Tossisce.

Si sposta nel magazzino accanto, che contiene materiale per centinaia di migliaia di euro. Sale la scala che conduce al soppalco, aiutandosi con il corrimano.

I cinquant’anni gli sono piovuti addosso come un temporale d’estate, ma non è l’età a renderlo lento. Si gratta una guancia, si accorge di non essersi rasato. Cammina per gli stretti corridoi, tra le scaffalature occupate da merce di ogni tipo. Raccoglie una cartaccia, se la infila nella tasca della giacca.

Osserva da una finestra rettangolare la fila di campi abbandonati e gli alberi di albicocche mossi dal vento di gennaio. Tre anni prima progettava di acquistare quella terra per ampliare la sua attività. Ora i giorni scivolano lenti, diventano un passato malato.

Si passa una mano sui capelli a spazzola, bianchi, e scende la scala. Chiude la porta del magazzino, percorre l’officina sino al reparto di verniciatura. Getta un’occhiata dentro, attraverso l’apertura ovale, bordata di gomma nera, dei vetri. Si volta: i quattro generatori di calore su ruote sono al loro posto, nuovi di zecca, acquistati prima dell’autunno.

Aspira due, tre volte, con la bocca aperta, le braccia lungo i fianchi. Lo sente nell’aria: profumo di ferro, lubrificanti, plastica, vernici e solventi. Profumo di lavoro. L’unico che ha sempre amato.

Una volta lo squillo del cellulare lo trovava pronto, simile a un rapace. Adesso, perché la sua attenzione si sposti all’apparecchio che trilla nella tasca, gli ci vuole del tempo.


Non hai mai capito niente. 12+1 racconti di Marco Freccero

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Prima la storia, poi il lettore.


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