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Non ho mai amato la vita. O almeno ...

Creato il 01 aprile 2011 da Faith

Non ho mai amato la vita. O almeno di sicuro non l'ho mai amata quanto bisognerebbe amarla se si fosse minimamente degni di viverla.

I medici hanno sentenziato quello che il mio istinto aveva sentenziato dal primo istante.

Ossia che la vita ti toglie e ti dà in egual misura.

Ha dato, quando ha salvato la vita di mio fratello, lattante di un anno e mezzo, toglie, in egual misura e percentuale, il famoso 2%, quando toglie a mia madre la possibilità (e questa è la regina delle ridefinizioni positive) di ammalarsi di una qualsiasi demenza senile. Perchè non ci arriverà, nè alla senilità e nemmeno alla demenza.

Con il referto della scintigrafia davanti, ho pregato che la mia ignoranza medica mi proteggesse. Ho pregato e ho detto: lesioni secondarie nelle ossa che fanno da giuntura, forse è artrite, vecchiaia...

Nulla di tutto questo, naturalmente.
Lesioni secondarie significa metastasi.
L'elenco dele ossa che si stanno mangiando è lungo. Clavicola, anca, ginocchia.

Lungo almeno quanto è corto l'elenco delle cure possibili: nessuna.

Dicono protocollo. Poi sperimentale. Poi rallentare. E poi costoso, l'ultima parola che ascoltiamo, naturalmente.
Del tempo e della progressione non dicono nulla. Non sanno dire nulla. Perchè è un tumore raro, non si conosce la cura, non si sa come progredisce, non si sa nemmeno se la terapia potrà essere seguita e se servirà davvero a qualcosa. Non si sa se avrà degli effetti collaterali e nemmeno quando li avrà.

E' dal 4 gennaio che penso: perchè lei e non io.
Penso: ama noi, ama i suoi bambini e ama la vita.

Io non amo la vita, non amo i suoi bambini, non amo me, e ho desiderato morire, tanto, che dai miei chiari intenti mi ha trattenuto solo il pensiero di non dare un dolore a lei; un dolore che non avrebbe mai avuto la forza di sopportare.
Le bende improvvisate, il sangue nascosto, la cura in ogni dettaglio che potesse sembrare rendere un'esibizione di dolore adolescenziale, io l'ho tenuto nascosto solo per lei. Per non darle il chiaro dolore di avere una figlia così distante da quello che lei sperava.

Mio padre è fantastico. Legge in solitudine il referto prima della visita dall'oncologo, e va a correre. Mio fratello lo vede la sera e lo trova bianco cadaverico.
Penso che ci sarà un momento in cui io e lui dovremmo prenderci cura l'uno dell'altra, perchè saremo soli, e dovremmo inventarci una vita. Per anni non ci siamo rivolti la parola, ora parla con me come fossi l'unica persona che può capire, essere al suo pari. Dice che davanti all'oncologo non ha fatto posto delle domande; quelle domande le confida a me. Mi dice, alla sera, che siamo tornati nella fase del fare, che non dobbiamo farci abbattere, che non dobbiamo demoralizzarci. Dice che il problema adesso è decidere come affrontare la terapia.
Quando scendere.

Io penso: me, me. Ero meglio io. Che non ho costruito una famiglia, che non ho costruito una posizione, che non ho costruito me e nient'altro. Non farò figli, non avrò la pensione e nonostante tutta la mia intelligenza e competenza, sono destinata a lunghi periodi di disoccupazione.

E inoltre, passo il tempo a farmi cicatrici sulle braccia, come il più banale degli emo ante litteram, e se non me le faccio, passo il tempo a pensare a come non farmele e a che pazza disturbata sono per avere la mente occupata da questi pensieri anche adesso.


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