Scavalchiamo il confine, alle venti di una sera di fine agosto. La guida dei più grandi percorsi d’Europa è sulle mie gambe allungate, i piedi nudi sono appoggiati sul cruscotto del camper. Non te lo dico, che non l’avevo mai fatto. Non dico niente: guardo lo spazio d’aria che divide l’Italia dalla Svizzera e un po’ mi delude, scoprire che abbiano lo stesso calore. È una prima volta e la vivo con te, che mi hai già fatto da guida. Quando c’era da scegliere e mi guardavi aspettando che mi arrivasse coraggio, senza spingere.
Mia sorella al telefono m’invita a comprare cioccolata, le prometto un souvenir. Il mio sarà conservato negli occhi chiusi.
Cerchi una caramella ma non la trovi come al solito, nel disordine che abbiamo già creato. Allora te ne porgo una delle mie e sorrido. Ci ritroviamo nelle abitudini, e passa l‘imbarazzo dei mesi d’assenza prima di oggi.
Comincia così la vacanza che non abbiamo mai fatto, quando eravamo coppia. La facciamo adesso: perché te l’avevo promessa.
Quante domande non mi fai, mentre ti racconto i mesi in cui non ci siamo visti. E tu ascolti e ridi e mi dici che sono coraggiosa. Non mi dici che ti sono mancata.
Guardiamo muti l’asfalto per un po’. Quelli che eravamo prima sono dietro di noi, a replicare liti e scuse e tutte le domande che abbiamo lasciato in sospeso. Vorrebbero essere continuati, loro. Noi stiamo zitti. Non siamo mai riusciti a superare le ferite che ci hanno inflitto gli altri: questo è il nostro problema. Quando ci stringiamo le mani, non ci consoliamo: ci trasmettiamo pietà dalle ferite aperte.
“La prima a destra”, dice la voce del tuo navigatore. La prima a destra, per andare dove? E ci mettiamo a ridere.
Ci fermeremo nella prima città che ci troverà vagabondi a mezzanotte. Avrà vetrine spente e ragazzi che girano con in testa pensieri sonnolenti. Sarà il caso a decidere il programma.
Andiamo per andare, stavolta. All’arrivo sarà già finita e non abbiamo più voglia di epiloghi. Vogliamo azione. Il percorso lo sapremo dopo, dalle foto del tuo cellulare.
Arriviamo tardi e la città non ci accoglie. Ci guarda dai fianchi, dai riflessi del lago, dalle montagne scure. La notte copre le bellezze da cartolina, le bancarelle sono addormentate. Facciamo piano, per non svegliare niente.
Tu sei stanco e anch’io. Mangiamo dallo stesso piatto, desideriamo dallo stesso secondo e quelli che eravamo se ne vanno, appena tocco la tua bocca e aggiungo presente.
Occhi chiusi e mani stravaganti: ho imparato di te che se non mi chiedi domani, smetti di preoccuparti e la tua voce è più profonda, così non ti do il tempo di chiedermelo. Rifaccio a memoria la strada dalle mie gambe alle tue. Non ti chiamo per nome, ti cerco il respiro, mentre rimbocco paure sotto la pelle. Ti allargo le braccia e quando riapro gli occhi ho solo somme di minuti da darti.
Prima di addormentarmi, scatto una foto dal finestrino. Avremo tempo per indossare cappellini e macchine fotografiche a tracolla. Stasera impariamo a prendere solo quello che sappiamo tenere.
Mentre facciamo colazione mi chiedi dove voglio andare. Disegno percorsi e distanze, seguendo con i polpastrelli, le piccole vene stampate nella cartina. Da Stoccarda a Wolfsburg, c’è il tempo di quella leggera carezza del dito e pensiamo sia una buona idea.
Foresta nera mi suona come una favola, di quelle che spaventano i bambini. Di lupi e casette di cioccolata, nascondigli in gusci di lumaca, mele avvelenate e fratellini che scappano a mani strette.
Mille molliche di pane e arriviamo a fianco a un ruscello che è già finito un altro giorno.
La notte arriva rapida e nera. Viaggiatori sporadici disturbano il silenzio, grattano questo buio perfetto. È inchiostro fitto che ha coperto ogni pensiero. Anche l’aria è nera, entra negli occhi, fa scuro il respiro. Decidiamo di dormirci dentro, per vedere fantasie a colori, stanotte.
Piove, una pioggia che dimentica l’estate e gli ombrelloni, a pochi chilometri di distanza. Li dimentichiamo anche noi. Evapora muschio e picchetta sul tetto del camper e sulle foglie. Apro la porta e bevo felicità semplice, dalle gocce brune di questa pioggia solista.
Mai sentita una pioggia così. La pelle raccoglie il suo tocco incessante, freddo. Punge, come se mi volesse chiamare, farmi voltare. Ma dietro c’è altro buio. M’inzuppa in un attimo i capelli sciolti, mi circonda. Bagna le orecchie, sento solo fruscio e mi viene d’andare a tempo, di muovermi a piccoli passi, veloci, a dirotto. Appoggio i piedi sul croccante disegno delle fantasie della bambina che sono stata e intravedo stradine e nascondigli, fate sedute sulla mia spalla, folletti divertiti a vedermi senza età e senza ombrello. Non ho paura del buio: mi sento parte di tutto, sono dentro alle cose. Non spicco, non ingombro, non mi nascondo, non cambio. Riesco a vedermi.
Mi fermo in mezzo a questo nulla che suona una musica che conosco da sempre e te la vengo a portare.
Le gocce dentro al camper hanno ripreso una forma, hanno il colore del tavolo dove si fanno strada, si riuniscono sul pavimento. Tu bevi dal mio bicchiere e non reagisci. Aspetti che ti racconti di cosa si prova a fare una doccia perfetta.
A guardarti così, mi viene in mente una notte di qualche anno fa. Eravamo io e te, sdraiati sul mio letto, nudi. Era una di quelle sere in cui si fanno un sacco di domande strane sulla vita e poi, si finisce il discorso con “passami il Rum”. Mi hai chiesto che cosa avrei fatto se avessi avuto un solo giorno a disposizione. Avevi risposto tu per primo: fumerei una canna, giocherei a WOW e altre frivolezze. Sembrava uno scherzo. Ma poi ci avevo pensato su e mi ero detta che avevi scelto stupidaggini, perché ogni giorno della tua vita, ti sei sforzato di fare cose importanti, intelligenti. Alcune proprio geniali.
Quando l’hai chiesto a me, non ho saputo risponderti. Ho detto non lo so. Sono troppe le cose che vorrei fare almeno un’altra volta, almeno una volta.
Come si sceglie così, su due piedi, cosa salvare?
Era vero. Però in quel momento mi venivano in mente solo cose buffe, come provare orgasmi multipli mentre fumo una sigaretta, per verificare se rilassa o eccita. Fare bungee-jumping, riuscire per una volta a parlare al microfono davanti a tante persone, senza dimenticare cosa volevo dire.
Pensavo a Bukowski, che diceva che se avesse saputo d’avere un solo giorno di vita, avrebbe “scritto più veloce” e mi vergognavo di non avere qualcosa di così originale da dirti. Chissà cos’hai pensato di me, quella sera. Forse avrai pensato solo: passami il Rum.
Ricordo quella domanda e noi due, sdraiati sul mio letto e tu che aspetti. Calmo. Un po’ guardi me, un po’ guardi la macchia di sangue della zanzara che avevo ucciso l’estate precedente, ma non ho saputo lavare via.
E ora so che t’avrei risposto, tra le altre cose.
Se non avessi più tempo, vorrei dire tutto quello che va detto. Non vorrei lasciare alcune parole chiuse in trappola. Ad esempio, vorrei liberare: mi fido. Oppure: pazienza. E poi, non vorrei perdere l’occasione per farti sapere che tu sai chi sono.
Questo vorrei averti detto. Che tu mi hai vista, come mi vedi stasera.
E non ti ho mai detto di fermarti anche quando divento un po’ pazza. Non ti ho mai chiesto di non scappare quando diventi un po’ pazzo.
E non ti ho mai detto che io so amare solo da lontano, perché non l’ho mai avuto un amore sano. Uno di quelli che quando ce l’hai, resti. Anche quando si diventa un po’ pazzi. Io ho solo amato da lontano ed è per questo che quando succede, mi devo allontanare. È così che amo: a distanza.
E mi viene il panico, perché vorrei dirtelo e non ci riesco neanche adesso. Vorrei liberare le parole proprio mentre mi guardi, gocciolante di questa pioggia nera e non fai una piega.
Mi chiedi a cosa sto pensando.
“Mi domandavo se rilassa o eccita, fumare una sigaretta mentre ho orgasmi multipli”,dico.
Tu mi offri una sigaretta e mi sorridi. E finisco il tuo vino.
Dieci giorni sembrano tanti, se li conti. Questo terzo di mese lo viviamo rapido.
Impariamo paesi, stringiamo mani e le notti sono perfette per fare l’amore. Guardarsi a lungo, immaginarsi nuovi, leccare abbronzature di un sole lontano da casa.
Finito il viaggio, torniamo quelli di sempre. Io mi allontano. Tanto li conosco i miei giorni senza. E so restiamo, a modo nostro. Nei souvenir a occhi chiusi, in molte delle cose che ho imparato, nei nostri modi di dire.
E so che mi conosci anche nelle mie notti di terrore, quando penso d’aver sbagliato tutto e cerco le risposte e non le trovo. Allora spengo la luce e le domande diventano tutte dello stesso colore, sono parte del tutto. Non spiccano, non ingombrano, non si nascondono, non mi cambiano. Riesco a vedermi. Mi fermo a guardare la mia strada al contrario, tanto che ormai la conosco più di quanto lei conosca me. Non ci sono più colpevoli, nessuna scusa, nessun errore da perdonare. Ci sono giorni, uguali o diversi. Ci sono soltanto io e quello che ho imparato.
Ci sono ricordi, parole nuove, quelle vecchie da liberare. C’è il caos, l’inevitabile e storie da capire. C’è questa strada da percorrere, e in fondo è divertente non sapere dove porta.
Mi sorridi, mentre me ne vado. Come se domani dovessi rivedermi ancora.
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