NEVER LET ME GO (Usa/Uk 2010)
Il pretesto è all’incirca quello di The Island: esseri umani di serie B (cloni) che nascono e crescono con il solo scopo di fornire a esseri umani di serie A organi di ricambio. Ma laddove il film di Michael Bay nel 2005 affrontava la cosa con piglio action e forti dosi di (peraltro riuscitissima) tamarria, questo Never let me go è un dramma sentimentale dove tutto succede nei tormentati animi dei protagonisti.
Niente niente male: diretto dal veterano dei videoclip (per Lenny Kravitz, Madonna, David Bowie, Nine Inch Nails, Eels, Beck…) Mark Romanek e tratto da un romanzo di Kazuo Ishiguro (già autore di Quel che resta del giorno), si tratta di un’opera che riesce ad affrontare con estrema eleganza un argomento difficile e “fantascientifico” (la vicenda è ambientata in un presente alternativo drammaticamente ucronico) all’incrocio tra bioetica, racconto di formazione e tragedia greca. I tre personaggi principali, due ragazze e un ragazzo di cui seguiamo la tormentata crescita tra college apparentemente all’antica e luoghi man mano sempre più grigi e squallidi, sono legati tra loro da un tragico destino che conoscono sin dall’infanzia e a cui (non sappiamo bene perché) non vogliono opporsi: come protagonisti di un’opera di Sofocle il loro futuro è già scritto dalla nascita, e nulla sembra in grado di cambiarlo. Nemmeno i sentimenti che, in maniera diversa, li legano tra loro e che più di ogni altra cosa iniettano nei “donatori” bambini, poi ragazzi, brevi istanti di desiderio di vivere. Ed è proprio l’aspetto sentimentale l’elemento più riuscito della pellicola: i rapporti che intercorrono tra Kathy, Ruth, e Tommy sono descritti con un’eleganza minimale veramente notevole, un tocco capace di svelare e non svelare, una sapienza narrativa (spesso al limite del patetismo strappalacrime) che raggiunge il suo punto più alto nella scena in cui il ragazzo, in un bosco, il cielo grigiamente invernale, svela a Kathy il suo piano per poter prolungare di qualche anno la durata delle loro esistenze. Senza svelare nulla mi limiterò a dire che si tratta di una delle poche scene della storia del cinema di amore dichiarato al contrario, in cui un personaggio confessa a un altro di sapere di essere oggetto del suo desiderio, e facendolo sembra volersi dolorosamente liberare di un peso non inferiore a quello di chi l’amore lo prova in prima persona. Un dialogo bellissimo, laddove invece la scena esteticamente più riuscita del film è quella in cui i tre protagonisti, ormai quasi in punto di morte, si recano per un’ultima gita su una spiaggia desolata, luogo nascosto in cui giace il relitto di una piccola nave naufragata – toccante metafora della condizione umana, di cui i ragazzi, a loro volta, sono estrema lettura. Piuttosto commovente anche il prefinale, in cui, a casa della loro vecchia educatrice (interpretata da Charlotte Rampling), Kathy e Tommy apprendono la tragica e definitiva realtà sulla loro condizione.
Ottima l’interpretazione dei tre protagonisti Carey Mulligan, Keira Knightley e Andrew Garfield. Specialmente quest’ultimo (recentemente già co-protagonista di The social network) se la cava alla grande, con una mimica e una postura da bambinone triste veramente convincenti.
Sono sicuro che molti troveranno questo film patetico e involontariamente ridicolo (e in un paio di scene, ma solo un paio, effettivamente ho avuto la stessa impressione); altri invece lo condanneranno per non aver trattato il tema della clonazione e del valore della vita umana in modo abbastanza politico o filosofico o religioso. Per quanto mi riguarda, vi dirò, Non lasciarmi mi ha commosso. E da un film del genere non chiedo di meglio.
Alberto Gallo