No, Google, io non mi sento fortunato.
Non mi sento fortunato perché sono nato, punto primo. Ed essere nati implica un solo finale uguale per tutti, ossia che un giorno Signora Morte verrà e quel che avete fatto, l’avete fatto. Complimenti, vi dirà aprendovi la portiera, una vecchia Bentley nera, elegante, il sedile del passeggero un po’ consumato. Il clacson che produce un suono unico, riconoscibile, come se ve lo foste sempre portato dentro quel maledetto suono.
Qualcuno dirà, non importa come va a finire, importa quale strada hai percorso prima che finisca. Non venite a fare i saggi zen illuminati con me. Forse cinque o dieci anni fa queste cazzatelle new-age potevano anche funzionare. Ma la verità è che questa è una valle di lacrime, e non c’è soluzione.
A parte qualche scoglio o qualche isola felice, il resto è tormenta, venti, onde, abissi e cime privi di ossigeno.
Non mi sento fortunato perché non me ne frega nulla del mio vicino di casa o del mio prossimo. Il dolore è egoismo, è rispetto di sé, è identità e solitudine, è anticondivisione. Il resto te lo spacciano, ma la felicità, la gioia suprema puoi procurartele soltanto da solo.
Non credere nel branco o nella comunicazione. Il mondo ha inizio nel momento in cui apri gli occhi e finisce nel momento in cui li chiudi: cosa scegli di vedere?
Qui sta il punto. Perché secondo me molti non vedono, molti stanno rovinosamente precipitando verso la fine e non la vedono.
Però, oh, va bene così. Va bene così. Riprendete pure a digitare, a respirare, sentitevi fortunati.
In fondo lo siamo tutti: figli della fortuna, prigionieri del caso, tessitori di scelte.