Magazine Palcoscenico
L'arte autoreferenziale è l'unica che abbia un significato. Fare il teatro per sé, solo in quel momento il teatro fatto diventa un teatro per gli altri. Le sale dei teatri, le biblioteche, i cinema, sono solo dei patiboli contemporanei dove attraverso il bandolo della matassa si sterminano ogni giorno gli spettatori (CIT.)
La bellezza di avere un blog, puoi scrivere ciò che vuoi, quando vuoi, senza preoccuparti di chi leggerà, senza la pretesa di accontentare nessuno. Niente consensi, niente gloria, solo il piacere di lasciare navigare libere delle parole sul web. Parole terapeutiche, tranquillizzanti, che hanno il compito di placare l'anima in fermento, le onde violente che ti sconvolgono dentro quando si assiste al disfacimento di qualcosa. Ci sono individui che vivono di aria, acqua e cibo, altri - esseri forse inutili in questo tempo - per la cui sopravvivenza necessitano di aria, acqua, cibo e teatro. Tra i quattro elementi il teatro è l'unico che non si può trovare facilmente in natura, l'unico dove la stretta dipendenza dagli altri - se non si è geni in grado di coltivarsi da sé buon teatro, e noi non lo siamo - mette nervi e sopravvivenza a rischio. Nessuno della prima specie mangerebbe funghi avvelenati, nel caso li mangiasse troverebbe forse fine tra le larve. Se i primi non mangerebbero cibi velonosi o contaminati, non si capisce perché mai i secondi debbano digerire pasti teatrali indigesti, perché obbligati a somatizzare e lasciare assorbire al corpo e all'anima tale tossicità? Oh, certo, eravamo qui per recensire. Dicevamo, scrivere, una sorta di lavanda gastrica cerebrale, un'operazione d'urgenza che serve a neutralizzare e consentirci di sopravvivere senza nuocere a noi e a chi ci sta intorno. Già, perché ti prude lo stomaco, la testa, i nervi, il malumore dilaga e si prende i tuoi istanti di vita più tranquilli. Le mani, le mani iniziano a tichettare, già le prime righe aiutano a distendere l'animo, senti la tossicità nel corpo diminuire, già sei un po' pentito delle risposte rabbiose date a chi con ciò che hai visto non c'entrava nulla. Sì, così vitale è per noi quel po' di luce e polvere, quel po' di invenzione verosimile senza un'utilità apparente. Questo è: aria. Ancora una volta a divagare, la recensione, certo. Ma chi può dire quale forma può e non può esistere per una recensione? Non avendo qui bisogno di approvazione non ci mettiamo certamente a guardare alla forma. Se non fosse che il dovere professionale impone che si accenni a qualcosa e si parli di. Dunque: fa ride, è corto, c'era un sacco di gente. Fine. Cosa? Non basta? Questo è ciò che più ci sentiamo di dire, l'epoca è quello che è, la gente a fatica comprende Ionesco, meglio semplificare e lasciare che una frase sintetizzi un intero spettacolo: fa ride, è corto, c'era un sacco di gente. Meglio così, un'esistenza smart impone sintesi e concretezza, sbandieramenti senza lasciarsi andare a lunghe parafrasi contenutistiche. Rischieremmo di appesantire la connessione già precaria a causa del maltempo culturale e dall'eccesso di co2 nell'atmosfera. (Questa in fondo è una zona franca, non è Teatro e Critica - quello sì, luogo eletto - qui si recensiscono i grandi solo se han fatto bene, ma anche i piccoli perché spesso alcuni talenti non accademici restano nascosti e meritano un po' di attenzione. La speranza è quella di avvicinare il lettore al teatro). Tuttavia, può essere questa short review di un solo periodo, un valido criterio valutativo? Si può rispondere sì, che son gusti, ma allora tra il teatro e la televisione non c'è più tanta distanza, gli stessi reality seguono un criterio che è quello dell'audiece più che della qualità di contenuti. Accettare l'uno è accettare l'altro. Masse senza alcuna conoscenza oggi possono giudicare la musica, il teatro, l'arte, perché loro sono masse e in loro risiede la forza del relativismo dei piaceri e la forza dei grandi numeri. Anche se esistono forme di commedia più intelligenti, anche se non si racconta niente, anche se la voce non si sente in un teatro pur piccolo e non vi è alcunché di teatrale, massa e risate fanno la differenza. Anche se si ridicolizza - pur partendo da una base di verità - un mondo di cui molti non fanno parte (tema del non spettacolo è un provino) gonfiandolo di luoghi comuni, anche se si ride su Strasberg e non si sa nemmeno chi sia stato. C'è un certo tipo di pubblico - gente che non va a teatro se non qualche volta per vedere amici - cui basta dire "cazzo" o "vaffanculo" o far cadere i calzoni ad un attore, o qualche altro espediente prevedibile di comicità basso-televisiva per far uscire le lacrime agli occhi. E questi, questi si vorrebbe che fossero il termometro valutativo atto ad indicare uno spettacolo apprezzabile o uno spettacolo non apprezzabile, al grido di: son gusti! E con tal motto si autorizza tutto, lo scempio e la banalità, l'insulto e la ridicolizzazione della realtà e dell'arte scenica. E per l'amore che abbiamo non si possono non scrivere queste brucianti righe, cariche di tensione, delusione, rabbia. Il teatro muore, non i teatri fisici, è l'arte teatrale a morire, perché non vi è più alcuna necessità rappresentativa, non ci resta che sbigliettare e accontentare chi guarda con qualche parolaccia o banalità. Un po' di meno? Un po' di più semmai. Anche i nostri son gusti. ps. e pare che gli attori vogliano andare all'estero, per partecipare a lavori alti. Ma perché nel proprio paese di origine invece si tende ad accettare tutto?
A.A.
Non-recensione ispirata al non-spettacolo "Un po' meno" di Fabio Zito
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