Stamattina leggevo l’editoriale di Ezio Mauro, sulla Repubblica di carta, e sono rimasta piuttosto colpita dalla sua dichiarazione a riguardo di Eugenio Scalfari: “Con Eugenio c’è qualcosa (molto) di più dell’amicizia. C’è un’avventura comune per noi importantissima, che si chiama “Repubblica” e va al di là di noi, c’è il fatto che ci siamo scelti tanti anni fa e continuiamo a farlo ogni giorno. Tutto questo complica? No, semplifica, perché obbliga alla verità. [...] conosciamo non solo le idee l’uno dell’altro ma anche i punti di dissenso di cui parliamo spesso, conosciamo soprattutto la nostra natura, che è alla base delle amicizie vere“. Ora, poichè Ezio Mauro succede come direttore de la Repubblica ad Eugenio Scalfari, che è anche il fondatore del medesimo quotidiano, la dichiarazione di amicizia e la breve ma chiarissima definizione del rapporto fra i due intellettuali italiani, evidenzia come in certi ambienti non susciti scalpore dichiarare che certe staffette vengono decise anche dai rapporti personali. Personalmente, non disapprovo il percorso e mi piace la descrizione del rapporto allievo-maestro che si trasforma in quello da colleghi, dove la conoscenza approfondita assieme all’assunzione del rischio di scegliersi, fa sì che ci si senti obbligati alla verità.
Credo che il processo finalizzato a tramandare esperienze, conoscenze e saperi inerenti un progetto (che sia di ricerca o di imprenditorialità poco importa), per far sì che esso prosegua ben oltre le capacità del fondatore di tenervi testa, sia molto importante e, ai nostri tempi, piuttosto trascurato. Penso in particolare ai percorsi di ricerca (mi verrebbe in mente anche la politica, ma distolgo velocemente il pensiero…), che è vero che si rinnovano e modificano in tempi sempre più brevi, ma conoscenze sia teoriche che pratiche legate a particolari argomenti possono finire per perdersi al pensionamento del docente di riferimento, se questo non è riuscito a creare una staffetta efficace. In molti casi ho visto mancare il senso di quel che Mauro definisce un’avventura comune per noi importantissima, che rimanda alla consapevolezza, anche un po’ sentimentale forse, di stare facendo qualcosa di importante e in parallelo alla capacità razionale di prevedere un futuro non semplicemente per sè, ma per l’avventura stessa.
Rileggo quel che scrissi qui tre anni fa a proposito dei baroni, dei maestri e degli insegnanti che popolano le nostre Università, con il disincanto cresciuto parallelamente alle esperienze fatte nel frattempo. Oggi credo che i docenti che considerano il proprio percorso di ricerca -e magari anche l’esperienza didattica- come un’avventura comune a cui occorre dare proseguimento non siano affatto la maggioranza del corpo docente. Non che per gli altri il proprio percorso non sia di valore -anzi-, piuttosto lo ritengono così strettamente personale da non ritenere così necessario che altri ne prendano le redini dopo di loro. Ricordo un incontro che ebbi con un professore ordinario in pensione italiano ad una conferenza negli Stati Uniti d’America, dove coordinava un progetto di ricerca in un ente importante. Conoscevo il professore per la sua fama scientifica, ma non personalmente, ed abbiamo avuto uno scambio di pareri di fronte ad alcuni interessi scientifici comuni. Alla fine, mi spiegò che se ne era andato negli USA per poter continuare a lavorare nella ricerca, chè quella era la sua vita, e che non voleva rimanere in Italia a vedere accapigliarsi quelli che erano i componenti del suo gruppo di ricerca per prendere il suo posto. “E’ che alla fine sotto di me ho preso solo persone mediocri. Quelli molto bravi, alla fine, danno problemi. Chiedono un confronto continuo, dibattono…e alla fine io li ho allontanati sempre. Non che gli abbia dato addosso, ma io volevo guidare tutto, ed essere solo alla guida. Così li ho mandati via e al mio posto ci sono solo cretini. Ma abbiamo fatto tutti o quasi tutti così, quelli della mia generazione…” mi diceva, mentre io non sapevo cosa ribattere, in equilibrio fra il fastidio suscitato dalle dichiarazioni e la sorpresa di ricevere una confidenza così esplicita. Ovviamente poi arrivarono le domande dirette, su professori ordinari prossimi al pensionamento e con cui avevo avuto occasione di collaborare: “…allora X è stato bravo, non ha preso solo deficienti, ma anche Y che è uno capace?! Comunque, dì ad X di venire in America, che qui non si va in pensione mai…”.Rimarrebbe ora da mettere insieme i frammenti del quadro, guardarsi bene indietro e provare a pensare al domani, prima di trovarcisi dentro senza accorgersene, e magari chiedersi se era o non era tutta un’avventura.