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Non si capisce

Creato il 12 dicembre 2014 da Malvino
All’opinione largamente prevalente che siano i cosiddetti valori a dare fondamento ad una società si oppone quella di chi ritiene che essi ne siano solo il prodotto, peraltro assai tardivo rispetto alla sua fondazione, che dunque deve attribuirsi ad altro, in primo luogo ai cosiddetti bisogni. Nel primo caso, non è mai abbastanza chiaro donde vengano, questi valori, né cosa riesca a renderli fondativi in certi casi e in altri no, cioè cosa sia in grado di renderli ampiamente condivisi o no, perché almeno una cosa è chiara: alcuni valori assumono forza nella misura in cui sono assunti come tali a discapito di altri, e non c’è accordo unanime su quali sarebbero fondativi e quali no, tutto dipende dal tipo di società che esalta questi e degrada quelli. Tutto è più chiaro col ritenere che una società li assuma in funzione dell’opinione che ha di se stessa, in pratica che li produca – se mi è consentito esprimermi con un ossimoro – come moventi a posteriori, rappresentazioni (non di rado sublimate) di ciò che l’ha resa tale. In quest’ottica i valori stanno alla società come lo stemma sta a una nobile casata, rivestendo di simboli la sua origine e i suoi caratteri, ma in fieri. È chiaro che Giorgio Napolitano propenda per la prima ipotesi, e questo un po’ stupisce, perché la sua formazione culturale dovrebbe portarlo a propendere per la seconda. Però stupisce solo un po’, perché la tradizione di scuola marxista incorre spesso in contraddizione quando distingue tra struttura e sovrastruttura. Così riusciamo a chiudere un occhio quando afferma: «Nella prima metà del secolo scorso c’è stata in larga misura, nella nostra Europa, un’eclisse di quei valori, democratici e solidaristici, determinata dall’avvento e dal feroce dominio del nazifascismo. E ciò di cui discutiamo e ci preoccupiamo oggi è, sia pure in ben altro contesto, di nuovo un oscuramento di parametri essenziali del comune vivere civile, tra i quali il rispetto della cultura e la cultura del rispetto: rispetto, innanzitutto, delle istituzioni e delle persone. Rischiamo, nella fase attuale, il logoramento e la perdita delle conquiste del periodo di riscatto e di avanzamento conosciuto dall’Europa nella seconda metà del Novecento». È un’analisi che ci attenderemo da un crociano: la storia come manifestazione di uno spirito immanentizzato, il progresso come sua intrinseca natura, l’«oscuramento» come parentesi, come incidente, come transitorio smarrimento di valori che sono assoluti e non il risultato di ciò che una società elabora in forma di consapevolezza. Una relazione tra società e valori come quella che sembra suggerirci Giorgio Napolitano porta inevitabilmente a fraintendere la portata degli eventi che sono in gioco in una crisi (dando al termine il significato che assume in ambito scientifico): si fa una madornale confusione tra cause ed effetti, come appare evidente dalla necessità di dover ricorrere ad una peraltro non meglio definita «patologia dell’anti-politica» per spiegare – arrivando fin quasi a giustificare – le colpe della politica. È di tutta evidenza che un sintomo venga considerato agente patogeno, ma quello che maggiormente sconcerta, tuttavia, è il ricorso ad una categoria come quella dell’«anti-politica», che appartiene alla più becera pubblicistica. Volendo riprendere l’allegoria che qui ci viene proposta, sembra che Giorgio Napolitano pensi che l’organismo soffra a causa della febbre, senza porsi il problema di quale microrganismo l’abbia causata, tantomeno afferrando la funzione che la febbre ha in un organismo affetto da un processo infettivo. Giacché sarebbe vilipendio del Capo dello Stato anche il semplice sospetto che si sia bevuto il cervello, si è costretti a pensare che Giorgio Napolitano voglia continuare a esorbitare dai poteri che contempla la Costituzione, anche agli sgoccioli del suo mandato, come a lasciare un protocollo d’intesa alle forze politiche che fanno sistema: liquidare come «patologia eversiva» ogni momento di critica allo status quo. Di fatto, dalla crisi sarebbe possibile uscire solo col recupero di quei valori che sarebbero stati smarriti proprio dai partiti che fanno sistema. Perché li avrebbero smarriti? Non si sa, a stento ci viene suggerito il come. Ci sarebbe stato «uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. È stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull’adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l’azione. Altrimenti l’esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione». Con tutto quello che ha firmato in questi ultimi otto anni, Giorgio Napolitano si sente innocente? Ma come si possono recuperare questi valori? Non si sa, a stento ci viene suggerito che si dovrebbe «dare nuova vita e capacità diffusiva a quei valori [con] una larga mobilitazione collettiva volta a demistificare e mettere in crisi le posizioni distruttive ed eversive dell’anti-politica, e insieme, s’intende, a sollecitare un’azione sistematica di riforma delle istituzioni e delle regole che definiscono il ruolo e il profilo della politica». Come nella premessa posta all’inizio: donde verrebbero ripresi questi valori? E come potrebbero essere rivivificati con una riforma delle istituzioni e delle regole che porta quanto mai lontano dal modello di società che li produsse? Non si capisce. 

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