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Non stancare il lettore

Da Marcofre

Non stancare il lettore, dice Anton Čechov. Come si fa? Ce lo dice lui:

 

“La mensoletta alla parete faceva macchia coi suoi libri”. (…) A che pro? Voi trattenete e stancate l’attenzione del lettore, costringendolo a soffermarsi a immaginare la variopinta mensoletta.”

 

Ci sarebbe anche da dire qualcosa sull’uso del “voi”, che a quei tempi in Russia (solo lì?) si usava parecchio, ma lasciamo da parte questo dettaglio. Lo sguardo di questo autore fa dritto al sodo, e come si comprende al volo, bada all’essenziale.
A comunicare.

Se scrivo quella frase a proposito della mensola, i libri e la macchia, il lettore legge e dice: “Eh?”
Viene meno la Legge Suprema che regola i rapporti tra lettore e chi scrive, e che recita più o meno:

 

“Mai spezzare la magia”.

 

Bisogna sorvegliare parecchio le parole, la propria scrittura, perché è facilissimo infilarci mensolette, e cose che sembrano proprio buone. In realtà, la storia contiene quello che serve per approdare in porto, e quando invece occorre ricorrere a questi artifici, significa che qualcosa si sta ingrippando.

Certo, Omero si addormentava. Peggio di questa eventualità, c’è quella che fa addormentare il lettore, oppure lo indispone perché invece di leggere, deve perdere tempo a immaginare le mensole.

Questo accade perché non c’è sufficiente lavoro sulla parola. Quando si ha paura che non riesca a sostenere lo sforzo (perché si legge poco; perché si pensa poco; perché non si rilegge e non si riscrive), c’è spesso la tentazione di imboccare la prima scorciatoia disponibile.

Non è possibile che il lettore non apprezzi, si dice. Ma questa si chiama “illusione”, perché costui o costei nemmeno noterà la macchia e la mensola.

È il suo modo di farti sapere che per lui nemmeno esiste una certa espressione. E allora, perché metterla?

Comunicare. È il verbo più usato da chi scrive con ambizione. È il più evitato da chi scrive e immagina che si ottenga qualcosa che funziona grazie all’addizione, al numero elevatissimo di parole ed espressioni.

Certo, comprendo che siamo alle prese con un consiglio che dopo aver letto e magari apprezzato, non tappa la bocca al dubbio, anzi. Forse l’espressione usata da Čechov merita di essere cancellata. Ma le storie che leggiamo sono piene di trovate di questo genere: come fare? E se Čechov si sbagliasse?

Čechov coglieva nel segno, in realtà. Quello che lui tiene sempre al centro della sua opera, è la comunicazione col lettore. Se questa viene interrotta, occorre intervenire con un bel taglio. Non sta affermando che una storia non debba contenere delle mensole, oppure delle macchie. Al contrario, chiede e si chiede: “A che pro?”.

Non basta che suoni bene, che ci stia a pennello, oppure che sia costata un paio d’ore di riflessioni.

A che pro?

E nel dubbio, un bel colpo d’ascia.

 


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