Ma non è tanto la faccenda di Vasco, degli scrittori, degli anonimi attaccanti o dei nomi scritti sui muri. Niente di tutto questo voglio discutere che, di fondo, non mi interessa.
Piuttosto mi sorprende la grande mobilitazione del web. Non che la mobilitazione non sia buona di per sé, ma del tipo di mobilitazione che pare ci sia. Quella in cui un ‘like’ basta ad essere chiamati attivisti, difensori della libertà di parola, dell’ultima a chi la spunta. Colpo su colpo a suon di mediatico.
Un mediatico che corre sulla superficie , che non trasporta le persone. Che le incontra e le lascia uguali. Uguali con le proprie idee, censori di chi osa non farle esprimere. Esprimere come e cosa, questo è il punto. La satira ha avuto sempre un ruolo regolatore nelle democrazie, essa è stata persino eliminata dai regimi. Essa sprona a pensare, non solo a ridere. Non sprona al ridere del pensare. La satira è un sacrosanto diritto dell’osmosi democratica.
- questo articolo è una scusa per sbloccare finalmente questa invenzione
Il ‘like’ al massimo è funzionale al nostro senso di non praticità, del nostro suicidio della praxis, del racchiudere in una scatola enigmatica – il like appunto – un misto di riconoscenza, visione, moda, superficialità, sincera convinzione: italiani, ripercorrendo immaginifici stereotipi, popolo di scrittori, ciarlatani, aguzzini della parola.
Scendere in piazza è importante, ma risulta anch’esso sterile se non inteso come esercizio quotidiano. La scrittura, come vuole il buon manuale del blogger, è anch’essa frutto e fatica quotidiana. Con la scrittura si scende in piazza e il contrario. Bisognerebbe far diventare la nostra vita quotidiana una piazza, piuttosto. Una piazza in cui scendiamo con dedizione, con lenti aggiustamenti giorno per giorno, per riappropriarci degli spazi di cui ci lamentiamo.
Ora scusate, ma ho da fare.
- Lui più di me, però.