di David Incamicia |
E' vero, come scrive oggi Ilvo Diamanti su Repubblica "C'è insoddisfazione in Italia. Un'insoddisfazione sorda ma non più muta". Un sentimento di disagio e insofferenza che da tempo traspare con cadenza quasi quotidiana rivolgendosi all'immondo Palazzo, e in particolar modo a chi del Palazzo custodisce con egoismo e arroganza le chiavi. Da mesi le piazze italiane sono il centro di una protesta sociale diffusa e insistente, di una indignazione senza precedenti. Giovani e donne, studenti e operai, disoccupati e precari, impiegati e insegnanti, perfino i "padroni" e le forze dell'ordine hanno a più riprese dato corpo al grido di dolore che proviene, se non dall'intera Nazione, certamente da un'amplissima parte di essa. Un urlo quasi disperato, che si è fatto sentire con effetti inattesi e dalla portata rivoluzionaria specialmente nell'ultimo voto amministrativo.
Le ragioni di tanta insoddisfazione sono molteplici e differenti, ma hanno alla base un comune denominatore di tipo sociologico ben analizzato dall'Osservatorio di Demos-Coop: la percezione della categoria di classe sociale da parte degli italiani. Per la prima volta, infatti, la piramide tradizionale si rovescia completamente, con quanti si collocano nella "classe operaia" o fra i "ceti popolari" in genere che superano quelle che si sentono "ceto medio". Quindi, osserva Diamanti, dalla "cetomedizzazione" degli anni Ottanta, indice di benessere diffuso, si sta oggi determinando un processo di "operaizzazione". L'indicazione del sondaggio è esplicita: il 48% del campione nazionale dice di sentirsi "classe operaia" oppure "popolare", a fronte di un 43% che ritiene di appartenere al "ceto medio". Appena il 6% si definisce "borghesia" o "classe dirigente", pur trattandosi dell'unico segmento sociale stabile che continua a risentire della crisi economica in misura minore degli altri.
Perchè questo capovolgimento di equilibri nella società? Il primo fattore di mutamento, secondo la Demos-Coop, è rappresentato dal progressivo scivolamento di oltre metà del cosiddetto popolo delle partite Iva (autonomi, artigiani, commercianti) verso i ceti più bassi. Lo stesso è avvenuto e ancora avviene per circa un terzo di impiegati e dipendenti. L'insoddisfazione legata al mercato del lavoro e alla precarietà economica, del resto, non è mai stata così alta. Tanto che l'assoluta mancanza di certezze occupazionali oggi inquieta il 75% della popolazione. Riguarda tutti, in sostanza. Perchè il declino in atto accomuna vecchi e nuovi poveri, allargandosi appunto a operai, impiegati e pensionati (il ceto medio che fu), e finendo per coinvolgere anche altri gruppi sociali solitamente posizionati più in alto, come ad esempio le classi dirigenti. Gli stessi lavoratori autonomi (20%) ma soprattutto i liberi professionisti (44%) oggi definiscono la propria condizione di lavoro "precaria".
Il 17% degli intervistati da Demos-Coop, inoltre, dichiara di aver lavorato nell'ultimo anno in modo temporaneo. Si tratta innanzitutto di giovani e di studenti (28%), una generazione precaria come da tempo si va ripetendo. E alla quale è stato rubato il futuro. Il 63% del campione ritiene che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei propri genitori. Il 56%, invece, ritiene che i giovani possono coltivare il sogno di una carriera professionale soltanto lasciando l'Italia. A pensarla così sono in primo luogo i diretti interessati: il 76% di coloro che hanno meno di 25 anni. "Fannulloni" per forza, per quel forte senso di insicurezza che li pervade a causa delle croniche difficoltà economiche e occupazionali e, soprattutto, per l'inedaguetezza della politica incapace di fornire risposte al Paese reale e sempre rintanato nel proprio castello dorato ad addossare ogni colpa "agli altri", a costruire alibi per se stessa.
Da qualche tempo però, come spiega proprio Ilvo Diamanti, questa spirale pare essere giunta alla fine. Il processo di discesa sociale sta producendo effetti politici evidenti e sarà sempre più arduo, per chi oggi ci governa, proseguire nella strategia della dissimulazione e della propaganda sostenendo che "tutto va bene" e trattando chi prova a smascherare l'inganno come nemico della Patria. Se più di mezza Italia si lamenta, se i ceti medi e perfino la borghesia hanno paura, se i giovani pensano di fuggire dal Paese non si può sempre scaricare le colpe addosso agli altri: sulla magistratura "che non mi fa governare", sull'opposizione che fa ostruzionismo, sulla stampa che racconta il falso, sugli insegnanti che educano all'odio, sugli impiegati che sono "fannulloni", sui giovani che sono "bamboccioni", sui "terroni" spreconi e assistiti. Presto o tardi i nodi vengono al pettine, anche per i più potenti fra i potenti. E hai voglia a cazzeggiare per due ministeri in Padania o per salvare il gran Capo da processi che evidentemente teme, se poi lasci soffrire il popolo che dovresti rappresentare senza ascoltarne il lamento.
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Se a qualcuno i dati di Demos-Coop appaiono troppo di parte, che provi a dare un'occhiata a quelli recentemente diffusi dall'Istat nel Rapporto Annuale sullo stato sociale ed economico dell'Italia. "Una ripresa stentata, che ha come conseguenza un ulteriore allargamento dei divario tra l'Italia e i partner europei, accompagnata da una situazione di persistente deterioramento del mercato del lavoro che penalizza soprattutto donne e giovani, un'evoluzione stagnante della produttività e dei salari...", questa è la fosca fotografia dell'Istituto nazionale di statistica, scattata in cinque capitoli che documentano le condizioni del mercato del lavoro e delle famiglie italiane alla luce dei prossimi obiettivi europei in tema di riforme economiche. Il sistema Italia appare più vulnerabile di qualche anno fa. La stagnazione dell'economia si riflette sul calo del potere dell'acquisto delle famiglie, costrette a erodere i risparmi per mantere stabile il proprio tenore di vita (la propensione al risparmio nel 2010 si è attestata al 9,1%, il valore più basso dal 1990). Ma circa un quarto degli italiani (oltre 15 milioni di cittadini pari al 24,7% della popolazione) non ha alcun risparmio a cui dare fondo per tirare avanti, sperimentando il rischio di povertà o di esclusione sociale. Si tratta di un valore superiore alla media Ue che è del 23,1%. Le difficoltà economiche italiane accentuano le nostre distanze dagli obiettivi di Europa 2020, in particolare sotto i profili della spesa per ricerca e sviluppo e dell'istruzione.
E infatti, come rileva l'Istat: "il tasso di crescita dell'economia italiana è del tutto insoddisfacente e anche i segnali di recupero congiunturale dei livelli di attività e della domanda di lavoro non sembrano sufficientemente forti e diffusi per riassorbire la disoccupazione e l'inattività, rilanciando redditi e consumi". Di conseguenza, "l'occupazione sta ora crescendo prevalentemente nei servizi a più basso contenuto professionale, a fronte della riduzione del numero delle posizioni più qualificate. Ciò implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano, guadagni più bassi, minori prospettive di sviluppo".
Il problema, rincara l'Istat, è soprattutto che "quella italiana è l'economia europea cresciuta meno nell'intero decennio 2001-2010" (noto anche come il "decennio berlusconiano"). Le cifre più preoccupanti riguardano ancora una volta il mondo del lavoro. Da noi il mercato dell'occupazione è molto debole e presenta una minore qualità rispetto ai partners europei. Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532.000 unità: oltre la metà è concentrata nel Mezzogiorno, anche se la flessione riguarda pure il Nord (-228.000 unità). Il danno peggiore si è prodotto nell'industria (404.000 posti di lavoro persi). In tale contesto, la Cassa Integrazione non riesce più ad assolvere al ruolo di paracadute sociale. Infatti, scrive l'Istat che "circa un quarto di quanti erano in Cig nel 2009 lo sono anche un anno dopo; uno su due ritorna al lavoro e uno su cinque non è più occupato". Di nuovo "la situazione è particolarmente critica nel Mezzogiorno, dove si registra il maggior numero di persone in Cig a distanza di un anno e il minor numero di rientri sul posto di lavoro (33,6% a fronte del 64,2% nel Nord) con un flusso più alto di uscite verso la disoccupazione (7,9%) e, soprattutto, verso l'inattività".
Alla prova dei fatti, dunque, lo "zoccolo duro" della disoccupazione rimane di circa due milioni di individui. Ma sono due milioni anche gli scoraggiati, coloro che cioè nel 2010 non hanno più cercato un lavoro o perché in attesa degli "esiti di passate azioni di ricerca" o più semplicemente perché convinti che non avrebbero trovato nulla. Due milioni sono anche i NEET, i giovani che cioè non hanno un impiego, non studiano e non fanno alcun tipo di pratica professionale o apprendistato. Se a ciò aggiungiamo che il potere d'acquisto continua a calare, che i redditi sono fermi ormai da lungo tempo e che oltre il 16% delle famiglie per sopravvivere ha dovuto intaccare il proprio patrimonio o indebitarsi, il quadro delineato dall'Istat (piaccia o non piaccia dalle parti di Arcore) corrisponde alla reale situazione sociale ed economica di tantissimi italiani.
In sintesi, dal Rapporto Istat emerge che appena il 19,8% dei 30-34enni italiani possiede un'istruzione universitaria, contro una media europea del 32,3%. Dieci sono i Paesi del vecchio continente, tra i quali Francia e Regno Unito, che hanno già superato l'obiettivo fissato dalla Ue del 40% (da raggiungere entro il 2020). Per quanto riguarda gli abbandoni scolastici, l'Unione Europea prevede che debbano essere contenuti al di sotto della soglia del 10%. In questo caso, la media europea attuale è del 14,4%, quella italiana nel 2010 si attestava al 18,8%, con grandi differenze territoriali: in Sicilia, ad esempio, oltre un quarto dei giovani lascia la scuola con al massimo la licenza media. Distanze siderali anche sotto il profilo dell'occupazione dei 20-64enni: dovrebbe arrivare al 75% secondo i parametri di Europa 2020, la media Ue attuale è già pari al 68,6%, l'Italia è invece tra i Paesi con il tasso più basso. Ancora, le persone a rischio povertà sono il 16,3% a livello europeo, in Italia il 18,4%. Infine, siamo indietro pure per il levollo di accessibilità alle nuove tecnologie. La quota di persone che hanno accesso a Internet da casa è più contenuta rispetto a molti paesi dell'Unione, con un tasso di penetrazione del 59% (media europea del 70%). Inoltre, meno del 50% delle famiglie italiane che possiede un accesso a Internet si connette tramite la banda larga (media europea del 61%). Insomma, oltre ad essere un Paese anagraficamente vecchio siamo pure tecnologicamente arretrato e fondamentalmente ignorante.
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CONSULTA IL DOCUMENTO DI SINTESI Il dramma nel dramma, però, è come si è già detto quello che riguarda i giovani italiani, ormai privi di prospettive e condannati all'oblio sociale ed economico. L'Italia in effetti i suoi giovani li ha da tempo persi per strada: 2 milioni in meno negli ultimi 10 anni e addirittura dimezzati negli ultimi 20. Il Censis (giusto per non farci mancare niente) rileva che siamo primi in Europa per "inattività volontaria", nell'11,2% dei casi i giovani non sono interessati a lavorare o a studiare. Il dato italiano è più di tre volte superiore alla media europea (3,4%) e a quello di Paesi come la Germania (3,6%), la Francia (3,5%) o l'Inghilterra (1,7%). "La crisi - scrive il Censis non distanziandosi molto dalle conclusioni dell'istituto Demos-Coop - sicuramente contribuisce a diffondere un senso di sfiducia nel futuro per cui molti giovani guardano all'inattività come a un'alternativa possibile di vita". Ma questo non basta a spiegare la rinuncia alla ricerca di un lavoro da parte dei nostri ragazzi. Non li aiuta a vincere l'apatia, continua il Censis, "la funzione di ammortizzatore sociale che le famiglie si sono ormai abituate a svolgere e nemmeno le scarse possibilità di successo professionale legate all'istruzione superiore".
Per i laureati, l'accesso al mercato del lavoro è ancora più difficile che per i diplomati, e solo il 67% trova un impiego a tre anni dal completamento degli studi, contro il 70% di chi ha un diploma e l'84% dei laureati degli altri paesi dell'Unione Europea. Inoltre, secondo una ricerca di Eurispes, la laurea è inutile per il 20% dei lavoratori che sono impiegati in lavori sottoqualificati. Questo fenomeno é in continua crescita e provoca mobilità sociale discendente e immobilità sociale, ma è ancora più diffuso quello dei lavoratori con titoli di studio "incoerenti" con l'attività svolta, che caratterizza addirittura metà della popolazione.
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"L'Italia non è un paese per giovani" è una frase che ricorre assai di frequente nelle analisi di studiosi e commentatori. In realtà, come ha efficacemente dimostrato la puntata di Report andata in onda ieri sera e intitolata Generazione a perdere, non lo è più da un pezzo. Perché, è stata la domanda che ha attraversato l'intera trasmissione, il nostro Paese non riesce più a progettare il proprio futuro e ad investire sulle nuove generazioni? Un Paese nel quale gli anziani hanno superato numericamente i giovani, non solo perché si è allungata la vita ma perché da più di 30 anni si fanno meno figli a causa di ripetute crisi economiche scaricate sempre sulle fasce più deboli della società e per mancanza di adeguate politiche di welfare.
Per Report, facendo un paragone con la vicina Francia demograficamente confrontabile con l'Italia e certamente con politiche sociali di gran lunga più adeguate delle nostre, emerge come da noi manchi all'appello un'intera fascia generazionale: 4 milioni di giovani tra i 25 e i 35 anni. Il sospetto, del tutto fondato, è che per chi decide le strategie politiche del nostro Paese i giovani contino poco, siano invisibili sul piano politico salvo poi strumentalizzarne lo stato di precarietà nelle campagne elettorali promettendo loro un futuro migliore che non arriva mai. E allora, evidenzia Report, "ai ragazzi non rimane che mettere la collera nella valigia e andare via". La nuova emigrazione è fatta di laureati, ricercatori che non ritorneranno indietro perché trovano solo all'estero un'adeguata collocazione. Lasciando alle spalle un Paese che sta erodendo il risparmio privato per mantenere i figli, sempre più povero di risorse umane, sempre più vecchio e, appunto, ignorante.
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Tutti i fatti di disagio innanzi descritti giustificano il sommovimento politico in atto e pongono noi cittadini, prima ancora delle istituzioni e della politica stessa, dinanzi a una sfida epocale e decisiva. Oggi più che mai è infatti necessario saper riconoscere quanti sanno governare il presente e progettare il futuro, preferendoli a quanti invece difendono l'esistente come il migliore dei mondi possibili. E' un compito che richiede coraggio, quel coraggio che solo dall'esasperazione può sorgere e affermarsi con impeto irrefrenabile. L'Italia va liberata da una sorta di maleficio che pare immobilizzarla da troppo tempo. Attraverso un ritrovato spirito di iniziativa culturale e sociale, partendo dal basso. Non è importante essere di destra, di centro o di sinistra, tutte categorie ormai svuotate di senso rispetto alla gravità del presente e alle incognite del futuro. E' fondamentale semplicemente esserci, con la forza di voler cambiare in meglio la propria vita.
Scrive Monica Centanni sul Manifesto di ottobre per una nuova res publica, il manifesto elaborato lo scorso autunno da un gruppo di intellettuali che ama definirsi né di destra né di sinistra ma semplicemente "oltre" ("congiurati e non sobillatori, uomini e donne d’azione"), che l'incantesimo dal quale bisogna liberare l'Italia è quel "lungo inverno di afasia e di squallore, la mortifera asfissia per difetto di aria politica, l'incubo di un mondo ridotto al codice morale e formale di Silvio Berlusconi". Nell’ultimo periodo, in particolare, "lo strazio della cosa pubblica, dell'etica pubblica, dell'estetica stessa dell'Italia che di estetica è maestra nel mondo, è stato uno spettacolo da tutti i punti di vista macabro e pornografico, dannoso non solo per la figura e la dignità del nostro Paese ma anche per l'anima dei cittadini: una depressione della sostanza imaginale che si è riflessa nella depressione anche economica della res publica, nella raggelante assenza di un progetto di presente e di futuro".
E l'incantesimo si è rotto, come sostiene pure Diamanti, ormai irreversibilmente: a Napoli e a Milano come in tanti altri piccoli e grandi luoghi del Paese "già il cielo è diverso - scrive la Centanni - ed è finalmente iniziata una primavera che soltanto un anno fa era inimmaginabile". Una vera rivoluzione difficile da arrestare. La primavera di una Italia seria e bella. Di un'Italia diversa da quella che ci è stata imposta e raccontata nell'ultimo ventennio. Le illusioni vanno allontanate, ancora tutto deve essere costuito con cura e pazienza. Però questo è un momento di svolta, è un'occasione unica per porre nuove fondamenta alla nostra povera Patria restituendole dignità e la vita stessa. Chiamatelo pure nuovo risorgimento o come più vi aggrada, una nuova Italia sta già nascendo. Non ha bisogno di ministeri al Nord e pretende che tutti siamo uguali davanti alla legge. Capito lì nel Palazzo?