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Nord Kivu: una pace impossibile?

Creato il 14 gennaio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

Nord Kivu: una pace impossibile?

di Martina Tulimiero

Nonostante il governo congolese abbia annunciato solo pochi mesi fa la sconfitta delle forze del “Mouvement du 23 Mars” (M23), continuano gli attacchi e gli scontri fra i governativi ed i guerriglieri, culminati lo scorso 26 dicembre nell’eccidio del villaggio di Kamango, situato nello Stato del Nord Kivu – nella parte orientale del Paese e recentemente riconquistata dalle forze di Kinshasa – dove i ribelli hanno massacrato 40 persone. L’uccisione, peraltro, del 2 gennaio del comandante della Brigata Comando Unità di Reazione Rapida dell’Esercito congolese, Mamadou Ndala, in un’imboscata del gruppo ribelle ugandese ADF rende la situazione delle aree orientali del Paese ulteriormente instabile, con il rischio di una nuova deflagrazione del un conflitto armato, implicando non di meno il coinvolgimento degli altri Paesi della regione dei Grandi Laghi.

Il gruppo ribelle M23, attivo nel Kivu dal 2009, era entrato a Goma, capoluogo della provincia settentrionale dell’area, rivendicando gli accordi del 23 Marzo 2009 tra alcuni disertori e le forze ufficiali congolesi e protestando per le pessime condizioni di vita in cui vivevano gli abitanti della regione. Uno scontro legato a doppio filo con il fattore territoriale, essendo questa una delle zone più ricche del Congo, da cui provengono grandi quantità di diamanti, petrolio e coltan, minerale usato per la fabbricazione di apparecchi informatici. Per la posizione geografica, le caratteristiche naturali e le ricchezze del sottosuolo, la regione orientale congolese è diventata negli anni rifugio di molti gruppi ribelli nazionali e provenienti dai Paesi confinanti, specialmente dal Sud Sudan, dall’Uganda e dal Ruanda. Ne è un esempio proprio l’M23, che per oltre un anno ha alternato periodi di violenze nei villaggi e scontri con le forze nazionali a tentativi di pace con il governo centrale di Kinshasa fino ai momenti cruciali dello scorso autunno. Dopo la perdita delle ultime roccaforti di Chanzu e Runyonyi e dei villaggi sulle colline Mbuzi che conducono a Goma, il 5 novembre ha annunciato la resa nelle campagne al confine con l’Uganda, accordandosi con il governo di Kinshasa per il disarmo e la completa smobilitazione del movimento. Dal marzo 2013, e dopo la Risoluzione 2098 delle Nazioni Unite sull’istituzione di una missione di peacekeeping nel Paese, le forze armate della Repubblica Democratica del Congo (Fardc) erano state affiancate da una Brigata d’Intervento sotto la diretta responsabilità del Comandante della Missione ONU MONUSCO, composta da circa 3.000 caschi blu, che, a differenza dei peacekeepers, hanno avuto il compito non solo di proteggere e mettere in sicurezza i civili, ma anche neutralizzare il gruppo di ribelle che dalla città di Goma si era spostato nelle campagne. Il contingente messo a disposizione da Sudafrica, Tanzania e Malawi ha consentito alle forze regolari del Congo di sconfiggere in breve tempo i ribelli. È stata un’operazione senza precedenti, che ha suscitato anche molti dubbi. Il timore era che il governo rifiutasse di cercare una soluzione politica alla crisi ancora in corso, affidandosi ad un’operazione militare, o che le parti confondessero le organizzazioni di assistenza umanitaria per aggressori. Il risultato politico però è stato positivo e il Consiglio di Sicurezza sta pensando di replicare l’operazione contro altri gruppi presenti in Congo.

Le trattative di pace, che avevano subito una nuova battuta di arresto il 21 settembre, non sono state facili. Nonostante la vittoria sul campo da parte delle forze armate nazionali, i rappresentanti del governo congolese e dell’M23, grazie anche alla mediazione del Presidente ugandese Museveni – che fin dall’inizio degli scontri si era proposto come mediatore per le negoziazioni  si sono ritrovati nella città di Entebbe, pochi kilometri a sud di Kampala, ma non sono riusciti a raggiungere un accordo. La delegazione congolese è giunta al luogo dell’incontro con sei ore di ritardo e si è rifiutata di sedere nella stessa stanza con la delegazione dell’M23, rischiando di cancellare un anno di tentativi diplomatici. Il governo di Joseph Kabila ha più volte respinto le richieste dell’M23 circa la concessione di un’amnistia, adducendo come motivazione che, da sconfitti, i ribelli non potevano fare richieste o condizioni alla resa. Il governo congolese ha spinto piuttosto per una “dichiarazione di pace”, sottolineando così il carattere della conclusione della guerra e la sconfitta dell’M23, e non un “accordo di pace”, che significava dare la possibilità ai ribelli di essere reintegrati nell’esercito congolese.

Di fronte allo stallo delle negoziazioni, i Paesi della regione dei Grandi Laghi hanno temuto un riarmo dell’M23, appoggiato da altri gruppi ribelli che stavano approfittando delle trattative per occupare il territorio della regione orientale congolese. Inoltre, la fuga dei ribelli dopo l’attacco da parte della Brigata d’Intervento verso il confine ugandese ha fatto riemergere forti dubbi sulla complicità e la vicinanza dell’Uganda allo stesso Movimento, come riportato in alcune dichiarazioni delle Nazioni Unite sulla situazione in Nord Kivu. Se da una parte il governo congolese accusa il Ruanda e l’Uganda di appoggiare l’M23, dall’altra  il Presidente Paul Kagame ha risposto criticando la vicinanza tra il governo di Kinshasa e le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (Fdlr), ribelli ruandesi appartenenti all’etnia hutu fuggiti dopo il genocidio del 1994 che hanno trovato rifugio proprio in Nord Kivu a fine degli anni Novanta, stimati oggi in 1.500-2.000 uomini e autori di violenze, rapine e stupri sui civili congolesi con l’obiettivo conclamato di destituire il Presidente Kagame.

Le difficoltà riscontrate per la definizione degli accordi dimostrano dunque la complessità della situazione nell’est del Congo, un’area dove si concentra una folta presenza di gruppi ribelli – tra cui, come si accennava inizialmente, l’Allied Democratic Forces (ADF),  composto da ugandesi della regione centrale, di religione musulmana che si definiscono attivisti religiosi, oppositori del presidente Museveni e pericolosi per il legame che negli anni hanno coltivato con gli estremisti islamici somali di Al Shabaab e con i ribelli del sud Sudan – a causa della possibilità di finanziare la lotta armata con il commercio illegale delle risorse minerarie. Da qui si comprende la necessità di giungere al più presto ad un compromesso nel Nord Kivu.

Nei primi giorni di dicembre Museveni e Kabila, incontratisi a Kampala, hanno infine discusso del processo di pace fallito, accordandosi per la ripresa dei colloqui. Il documento avrebbe dovuto decidere anche le sorti dei circa 1.700 ex combattenti dell’M23 che si erano rifugiati in Uganda dopo la sconfitta subita, riaffermando la determinazione del Presidente Kabila nel liberare il Congo da tutte le forze negative, incluse FDLR e ADF. Fonti di stampa locale hanno riferito di un ingente spostamento dei ribelli ugandesi dell’ADF in fuga dal Nord Kivu per rifugiarsi più a nord, complicando le operazioni militari dell’ONU e dell’esercito congolese. Per controllare la zona bersagliata dei ribelli, le forze delle Nazioni Unite hanno fatto uso di droni, per la prima volta utilizzati in una missione ONU, con lo scopo di controllare e monitorare i movimenti delle truppe e della popolazione nelle zone di frontiera.

Kivu-Copia

L’evoluzione dei negoziati di pace nel Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo è terminata con la firma a Nairobi di tre dichiarazioni distinte. I firmatari sono stati il governo di Kinshasa, il Movimento 23 Marzo, l’Uganda in rappresentanza della Conferenza Internazionale dei Grandi Laghi e il Malawi per la Southern African Development Community. Nelle tre dichiarazioni, separate e unilaterali, viene ribadito lo scioglimento e la rinuncia alla lotta armata da parte del gruppo ribelle M23, la risposta del governo congolese che si impegna a varare un programma di smobilitazione, disarmo e reinserimento sociale degli ex ribelli, portando in Parlamento un progetto di amnistia, che come sottolineato dal Ministro degli Esteri congolese non riguarderà coloro che sono accusati di crimini di guerra o contro l’umanità. Nella terza dichiarazione firmata dal Presidente ugandese Museveni, che ha dato molto rilievo all’evento definendolo un accordo storico per la regione dei Grandi Laghi, si prende atto della fine dei negoziati iniziati a Kampala chiedendo al governo congolese e al movimento M23 di rispettare gli impegni presi.

Nonostante le firme per la pace, la situazione nel nord Congo continua a preoccupare sia per una possibile ripresa degli scontri e per l’escalation di tensione con gli altri gruppi ribelli, sia per le condizioni di vita della popolazione da anni vittima di attacchi armati. Negli ultimi mesi, infatti, sono proseguite le violenze sulla popolazione da parte delle FDLR, dell’ADF, dell’LRA (Lord Resistance Army [1]) e dei ribelli Mai Mai, aumentando il numero di persone in fuga dalla regione orientale del Congo. Tra gennaio e settembre dello scorso anno, le agenzie hanno stimato che circa 450.000 persone sono fuggite dalle loro case nel Kivu, rifugiandosi soprattutto in Ruanda ed Uganda e 2,6 milioni sono gli sfollati che rimangono all’interno del Congo. La tragedia umanitaria che doveva essere scongiurata dalla presenza di una missione delle Nazioni Unite è peggiorata negli anni, un Paese etnicamente diviso e politicamente debole e instabile non sembra avere gli strumenti per risollevare le sorti di una zona troppo ricca per non attirare gli interessi anche delle potenze occidentali.

La situazione politica e l’emergenza umanitaria diventano ancora più gravi se all’instabilità nella regione orientale si aggiungono le tensioni sfociate in attacchi armati nella capitale Kinshasa da parte degli oppositori del governo di Kabila e le rivolte dei ribelli negli Stati confinanti, le più gravi in Repubblica Centrafricana e in Sud Sudan, che hanno provocato migliaia di sfollati e centinaia di vittime.

* Martina Tulimiero è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Firenze)

[1] Il Lord Resistence Army con a capo Joseph Kony è un gruppo militare che opera nel Nord Uganda, in difesa dei diritti del popolo Acholi, sottomesso al potere centrale del governo ugandese. Esso lotta con metodi brutali, minacciando e costringendo uomini, bambini e donne a combattere, per creare uno stato teocratico basato sui Dieci Comandamenti e sulla tradizione Acholi. Le violenze dalla fine degli anni Ottanta non si sono mai fermate, contando decine di migliaia di vittime e sequestri, oltre un milione e mezzo di sfollati e migliaia di bambini rapiti e reclutati come soldati e costretti a combattere e a obbedire agli ordini degli ufficiali. Kony è stato accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini contro l’umanità e gli Stati Uniti hanno definito l’LRA come organizzazione terroristica internazionale. Il termine Mai Mai, invece, comprende una grande varietà di gruppi di milizie congolesi che operano nella regione orientale del Congo, costituiti per difendere il loro territorio da altri gruppi armati, soprattutto quelli provenienti dal Ruanda.

Photo credits: Reuters/Thomas Mukoya

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