La mia non vuol essere una recensione, ma solo una serie di riflessioni a seguito di un incontro con Massimo Carlotto e il suo Alligatore, qualche sera fa.
Tutti noi viviamo chiusi nel nostro piccolo mondo: gli incontri e gli scontri possono essere inclusivi, nel momento in cui la nostra bolla ne ingloba un’altra o da essa viene inglobata, o esclusivi quando ci si scivola accanto senza infrangersi, ignorandosi. Nell’universo dell’Alligatore, sembra che chiunque escluda l’altro, sfiorando l’essenza altrui senza entrarvi davvero: lo stesso protagonista ha trascorso questi vent’anni racchiuso nella sua bolla che include il suo legame col passato (Beniamino Rossini) e il suo tentativo di aprirsi al futuro (Max la Memoria).
È un vivere malinconico e assorto, pur nelle sue complicazioni, un vivere solitario in tre, pur distanti fisicamente. Neanche l’amore di una donna, passeggero o di una vita, riesce ad infrangere l’alone che circonda questi personaggi. Solo nei momenti della violenza l’universo burattiano va in frantumi: così accade di fronte alla perdita, alla morte, alla sanguinosa soluzione di una faida.