Remote isole artiche, ebbrezza da viaggio, test nucleari e quello che le cartine non dicono
All’età di 9-10 anni (forse prima) sviluppai una certa passione per le cartine geografiche. In realtà era quasi una fissazione. Da solo in camera le guardavo e riguardavo a lungo, non mi muovevo di un centimetro, ma lasciavo viaggiare l’immaginazione. Sfogliavo spesso il vecchio atlante di mia madre. Era un De agostini, che io ricordo da sempre tutto rovinato, anche se in realtà penso di esser stato io a contribuire in maniera determinante alla sua usura. Trovavo irresistibili le pagine con i riassunti sintetici dei continenti, le bandiere degli stati e le informazioni principali su ogni Paese: gran parte del mondo a parte qualche nazione ‘avanzata’ sembrava andare avanti con una misteriosa ‘economia di sussitenza’, producendo gran quantità di miglio e sorgo. I minerali estratti nei Paesi che più mi affascinavano erano invece uranio, bauxite, alluminio e i misteriosi fosfati. Qualche volta approfondivo sulla colossale enciclopedia comprata da mia madre. Austeri tomi che contenevano il conoscibile. Ricordo distintamente quando preso dalla foga, alle medie (o erano le elementari?) scrissi in un tema di Geografia sul terzo mondo che alcuni paesi, ricordo fra gli altri India e Brasile, sembravano avere le risorse, in particolare materie prime e crescita demografica per emergere. Mi beccai un’insufficienza: nel sussidiario ufficiale non c’era scritto. Sorrido a ripensarci ora.
Poi passai a seguire con più interesse le isoipse delle cartine fisiche, anche grazie a un bel mappamondo che arrivò in regalo. Si poteva illuminare dall’interno, e tutti i corrugamenti del nostro globo diventavano più evidenti, sembravano emergere, e assieme a loro i nomi dei luoghi e di oscure catene montuose. Fra mappamondo e atlante mi attiravano in particolare zone remote, dove i nomi si diradavano e quei pochi che c’erano erano bizzarri. strani, esotici. Mi perdevo nel blocco marrone del caucaso (possibile ci fossero monti alti come e più delle Alpi?) o nel blu del Caspio e nel verde scuro che lo circondava, un verde così profondo che non era possibile trovarlo altrove. E mi chiedevo che aspetto avessero le città, i paesi, i villagi segnati nei luoghi più remoti. Piccoli cerchietti vuoti nel mezzo del Sahara o delle steppe dell’est. In alcuni di questi luoghi sono stato.
Alcuni di questi posti agli angoli delle cartine non mi hanno deluso, co
me le isole Lofoten, in Norvegia. Ricordo ancora la vertigine, l’ebbrezza ineguagliabile di guardare verso le cime aguzze delle alpi norvegesi da una falesia all’estremità sud delle isole, l’idea (certo esagerata), di essere sull’orlo del mondo.Altri, al contrario, hanno rivelato una realtà assai diversa dalle aspettative. Ho incontrato paesi grigi e disperati ai confini orientali della Turchia, dove agli incroci invece dei semafori sonnecchiano i profili minacciosi dei carri armati. In Marocco e in India ho trovato discariche a cielo aperto e il deserto attorno alle città coperto di sacchetti di plastica. Leggo anche che la sognata Ulan Bator viene raccontata come il luogo più brutto e disperato del mondo.
Fra i tanti luoghi che ho visitato con l’immaginazione, ho fantasticato tanto su quell’enorme pezzo di terra ghiacciata che taglia il mar di Barents a nord della Russia, e che porta il nome di Novaya Zemlya, ‘La nuova terra’. Sull’isola (poi scoprì che erano due, tagliate da una stretta fessura piena d’acqua) era segnato un piccolo avamposto, Belushka. Lì vicino, ma sulla terra ferma, c’era un altro nome, Dickson. Negli atlanti non se ne parlava mai e il web per tutti, che avrebbe permesso di generare pagine e pagine di foto e informazioni, sarebbe arrivato un po’ di tempo dopo.
Nelle ultime settimane, non so davvero perché, sono andato a cercare qualche informazione su queste lande desolate. Anche per vedere se fosse possibile in qualche modo visitarle. Non è possibile: sono abitate da circa 2.600 persone, quasi tutti militari. Ma in realtà non è nemmeno consigliabile visitarle. E la realtà è che la storia di queste terre - piuttosto conosciuta, ho scoperto, da chi ha qualche anno più di me - è davvero molto triste.
Fino a metà degli anni ’50 le due isole Severnyj e Južnyj, erano abitate dai Nenets, popolo di nomadi arrivati nel 1877. Vennero strappati dalle terre abitate dai loro padri (e spostate alla vicina città di Archan
gels’k) quando nel 1954 l’Unione sovietica destinò le due enormi isole a diventare il più grande poligono atomico del mondo che, diviso in tre aree, copriva la maggior parte del territorio (sono lunghe 950 km, come l’Italia). Fra il 1954 e il 1990 fuorono fatte esplodere nell’atmosfera o in tunnel sotterranei oltre 200 bombe atomiche, compresa la più potente mai fatta detonare, la bomba Zar da 57 megatoni. Dei test (fatti anche con intenti propagandistici) si ebbe notizia anche in occidente, tanto che qualsiasi bizzarria climatica veniva di tanto in tanto collegata con quanto accadeva in Novaya Zemlya. Non contenti i sovietici destinarono il mare attorno all’isola a discarica di reattori, armi e sommergibili, si parla di 24 mila tonnellate di combustibile contaminato da radiazioni atomiche e 21 mila metri cubi di scorie radioattive sulle quali gli studi non sono molti. La storia potrebbe però essere di quelle a lieto fine: ora le radiazioni e l’inquinamento dovrebbero essere entro limiti accettabili e l’isola è abitata da numerose colonie di uccelli che possono nidificare indisturbati grazie al fatto che la zona è interdetta all’attività dell’uomo.La verità, mi sono reso conto, è che quelle cartine che guardavo da piccolo erano un illusione. Molti di quei luoghi remoti che sollecitavano la mia immaginazione erano in realtà spesso ripostigli, bidoni della spazzatura dell’umanità dove nascondere – nemmeno troppo bene – il lato meno presentabile: siti di test atomici, discariche radioattive, gulag, bidonville. Quello che una cartina, o google maps, assieme al dolore, la sofferenza, la vita delle persone, da sola non racconterà mai. Anche per questo c’è la necessità di vedere, conoscere, raccontare.
Link: Terre estreme, Novaya Zemlya
p. s. Di ritorno dal Giappone l’aereo ci è passato esattamente sopra: inutile dire che nonostante fosse il primo pomeriggio era invisibile per la notte artica, oltre che un fitto strato di nubi.