Ci sono considerazioni che funzionano ad incastro, come i puzzle. Ti girano in testa, ti vengono idee, e non riesci a farle diventare qualcosa di concreto. Poi d’incanto, un commento in tuo post, un post altrui, un articolo letto, e le cose d’incanto prendono forma e sostanza.
Da una parte c’è mauro, che si spiazza (parole sue) per la mia liaison con numeri e percentuali. Dall’altra c’è la ‘povna, che parla dei figli del romanticismo e dice cose giuste e vere. In mezzo c’è questo articolo, in cui, riassumendo frettolosamente, Andrea Ichino, professore di Economia a Bologna e, en passant, uno che all’esame di microeconomia, vent’anni fa, mi fece un mazzo quadro, fa a pezzi il liceo classico nel ruolo di pubblico ministero, versus un Umberto Eco che invece lo difende, nell’impianto e nella sostanza.
Tre considerazioni all’apparenza distanti, che trovano un punto di congiunzione nei concetti espressi dalla ‘povna, seppur, qui, declinati in diversa maniera.
L’Italia è un paese profondamente romantico, in cui il soggettivismo, l’individualismo esaltano al meglio (qualche volta) e al peggio (più spesso) le italiche qualità.
Non è un caso che l’operazione riesca meglio quando ci si spoglia delle sovrastrutture di certo cattolicesimo che non si può dire illuminato.
In Italia, i numeri son guardati con sospetto, con fastidio, con supponenza.
Vi dirò, ero anch’io così. Cinque anni di felicissima e piacevolissima permanenza in un liceo classico mi avevano confermata nella convinzione che la matematica e la fisica, e le scienze in generale, fossero un’accessoria seccatura sulla via della felicità.
Pur tuttavia, c’era un problema serissimo. Nel mio sconfinato amore per l’umanesimo, io non volevo fare quello. Nella vita di tutti i giorni, intendo. Non c’ero tagliata, proprio. Mi sarei sentita in gabbia, io che l’equilibrio perfetto lo trovo solo sugli aerei, tra il rimpianto di ciò che è stato e l’entusiasmo di ciò che sarà.
Pertanto, mi armo di santa pazienza (e una robusta dose di incoscienza) e con una matematica dal programma risicato e totale assenza di nozioni economiche e legali (mai visto un mastrino, un codice civile, un bilancio) parto all’avventura.
Troverò cose che ho amato moltissimo. Altre che ho cordialmente detestato. Altre ancora che ho studiato solo perchè ci dovevo riempire il libretto. In una facoltà di economia solo i pazzi possono appassionarsi a tutto. E da costoro, state alla larga.
Però in ciò che dice Ichino, c’è del vero. Questo paese ha un grado di ignoranza matematica imbarazzante. Avevo dei compagni di corso fusovietici. In matematica asfaltavano non tanto me (non ne avevano bisogno, per me era già sufficiente un mediocre studente di liceo scientifico) quanto persone che invece lo scientifico lo avevano fatto ed erano gente seria e preparata.
Niente da dire. Erano i programmi, e la preparazione alla base, a differire.
Ma il problema non risiede nel liceo classico. E qui c’è l’errore di Ichino. Il problema risiede nella forma mentis tipica di questo paese, che reagisce di fronte alla matematica come Goebbels quando sentiva parlare di cultura: mettendo mano alla pistola.
Come se chi ama le lettere non potesse amare anche i numeri.
C’è un sostanziale errore di fondo. Le lettere rappresentano il pensiero, dandogli forma, sostanza, coerenza. Ma i numeri non sono solo quell’accessorio utile a non farci fregare sul resto. Oppure quell’astrusa faccenda che consente di esplicitare calcoli capaci di farci salire sulla luna.
I numeri possono rappresentare la realtà, non diversamente dalle lettere dell’alfabeto. Solo con una simbologia diversa. E una chiave di lettura propria.
Ma eliminarli dal quotidiano è un rischio che non possiamo concederci. Perchè i numeri ci permettono di analizzare la realtà. E di discernere. Freddamente? Sì, freddamente.
Non c’è nulla di sbagliato, o di insensato, nella freddezza. Poi la freddezza dei numeri si può stemperare con le altre mille risorse romantiche di cui comunque disponiamo.
La psicologia, perchè a volte, la faccia di una persona significa più del giudizio che ne potremmo dare.
L’intuito, perchè a volte la logica ci spinge in una direzione, ma la pancia in un’altra, e pure la pancia, certe mattine, ha una sua dignità. Purchè la pancia non sia l’unica discriminante. Se no, son guai.
Me ne accorgo in situazioni che non son quelle delle blog (e in cui, peraltro, i numeri dovrebbero avere ben altra dignità). Quando snoccioli dati, percentuali e proiezioni, soprattutto se le ultime non sono granché, avverti sempre un senso di fastidio. E comprendi che avrebbero preferito mille parole, svuotate di contenuto. O generico incoraggiamento. O falso buonismo. Quel falso buonismo che fa sì che dietro le mille parole ci sia uno che va a casa con la pancia piena (l’oratore) e una pletora di povericristi che vanno a casa con la pancia vuota e la testa piena. Ma con la testa piena non si mangia, non si paga il mutuo, non si mandano i figli a scuola.
ecco, qui non si innalza un peana alla statistica, o alla matematica. O alle scienze. E per andare all’articolo di Ichino, non credo neppure che il classico abbia fatto il suo tempo. Men che meno che sia passato il suo tempo per la scarsa attenzione posta alla matematica. Questo è un Paese che la matematica, la disprezza. Proprio. Ma nel profondo. E stupisce che nessuno abbia mai collegato l’assenza di preparazione scientifica con lo stato miserando della nostra politica.
Se in Italia l’uso del pensiero analitico fosse cosa non dico comune ma almeno diffusa, pensate che panzane (perchè panzane erano) quali il milione di posti di lavoro, il reddito di cittadinanza, il Nord che è il solo a pagare le tasse, troverebbero seguito e dignità?
Non dico che tutto debba passare per i numeri. Ho preso, consapevolmente decisioni che andavano contro i numeri, per etica, per passione, per convinzione. Ma mai per inconsapevolezza.